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Anno edizione: 2003
Anno edizione: 2004
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Sono grato a M.Mucchetti perché il suo libro “ Licenziare i padroni?” mi ha introdotto nella letteratura economica italiana attraverso quattro storie italiane paradigmatiche. Ho fatto abbastanza fatica a portare a termine la lettura, infatti l’ho conclusa dopo alcune riprese dall’inizio, ma sono molto soddisfatto, visto che in questo modo sono riuscito ad apprezzarne i contenuti nella prospettiva di dare un senso alla proposta del titolo. Mi è piaciuto e lo tengo a portata di mano.
Il libro ha due gradi pregi: é scritto in modo chiaro e offre un'analisi lucida, ben suffragata dai fatti, delle vicende dei maggiori gruppi industriali del nostro paese. Anche le parti quantitative sono ben dosate e comprensibili. Ne esce un quadro poco lusinghiero e (credo) nel complesso poco conosciuto, con qualche indicazione interessante sui provvedimenti da prendere per evitare il ripetersi degli errori passati. Spero che lo leggano in tanti e che ne tengano conto quando dovranno orientare le loro scelte politiche
L'autore ce la mette proprio tutta: ma la materia, per i non addetti ai lavori, è di una barbosità letale, quindi si fa comunque fatica a finire il libro. Che dire del contenuto? In effetti, dimostra ciò che tutti sospettiamo: che, al di là delle quotidiane lagne tramite i mass media su burocrazia, "lacci e lacciuoli", "meno stato e più mercato", etc., l'imprenditoria italiana è prevalentemente in mano a personaggi i cui unici talenti risiedono nelle amicizie e nelle parentele. Un Bill Gates, qui, non combinerebbe nulla, non per la burocrazia, ma perché non è il cocco di nessuno che conta. In compenso si vedono cose che, se non facessero piangere, sembrerebbero inventate dai più brillanti umoristi: con quello che ha preso di liquidazione Paolo Fresco (il manager che ha dato il colpo di grazia alla Fiat), Agnelli avrebbe potuto mandare in crociera ai Caraibi, con tutte le famiglie, tutti gli operai di Melfi e Termini Imerese, invece che in cassa integrazione (pagata dallo Stato, quindi da noi). Insomma, ogni volta che vediamo in tv gente che viaggia nell'aereo privato e pretende di aprirci gli occhi sulle cause e i rimedi di una crisi che (si deduce facilmente dal linguaggio) è stata provocata da noi e dalla nostra perversa ambizione di voler trascorrere un'esistenza dignitosa, dovremmo sempre ricordare quei modi di dire popolari che esprimevano lo spirito del facile successo e della facile ricchezza: "Franza o Spagna, purché se magna", "Chiagni e fotti", e chi più ne ha più ne metta. Chissà che non gliele insegnino al MIT o alla London School of Economics, certe furberie.
Recensioni
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Licenziare i padroni? A leggere il libro, che rivela dati economici analizzati attraverso uno stile narrativo brillante, verrebbe da rispondere di sì e senza neanche bisogno di riformare l'articolo 18. E chi sono i padroni licenziabili? Mucchetti ne individua quattro - licenziabili per motivi diversi - che rappresentano gli stereotipi dell'imprenditore italiano di fine secolo. Il padrone "classico", Giovanni Agnelli; il "banchiere", Vincenzo Maranghi; il "manager" rampante, Marco Tronchetti Provera; infine il "politicante", Silvio Berlusconi. L'intento del libro è quello di fornire una risposta alla seguente domanda: perché non si è imposto un cambio della rotta quando si era in tempo? Prima che Fiat, Montedison, Ferruzzi e Olivetti (baluardi del capitalismo privato italiano) franassero negli anni novanta? La tesi dell'autore è che durante gli anni novanta (gli anni della "Grande Occasione"), quando era presente sul mercato borsistico una grande liquidità, i capitalisti a capo delle maggiori aziende italiane non hanno approfittato della congiuntura favorevole per risollevare le sorti delle imprese di cui tenevano il timone. Avrebbero potuto generare quella ricchezza in grado di combattere la sottocapitalizzazione in cui le imprese si trovavano innescando un meccanismo virtuoso di sviluppo industriale i cui benefici sarebbero andati all'intera collettività. Invece hanno preferito assecondare la propria cupidigia e dall'alto delle proprie holding bruciare miliardi di vecchie lire in speculazioni finanziare piuttosto che investire in ricerca e sviluppo diventando (o meglio ridiventando) il volano dell'industria italiana. Hanno mostrato al paese l'avverarsi di due profezie (entrambe ricordate dall'autore). Quella di Luigi Einaudi sulle "piramidi societarie", che danneggiano le industrie in quanto danno potere ai manager, togliendo loro responsabilità, e quella di Enrico Cuccia, secondo cui il capitalismo familiare italiano si sarebbe trasformato da produttore industriale a erogatore di servizi. Mucchetti individua il seguente criterio per avallare la propria tesi: analizza la capacità delle imprese di generare (o distruggere) ricchezza per gli azionisti considerando il periodo 1986-2001 (ossia dopo il compimento della prima grande ristrutturazione industriale). I dati sono presentati in un'appendice di facile lettura anche per chi non è avvezzo a elaborare certi numeri. Il risultato è che nel periodo in questione le grandi imprese private (Fiat, Olivetti, Montedison, Pirelli) hanno distrutto ricchezza per migliaia di miliardi di lire. Hanno creato invece ricchezza lo stato (Telecom, Enel, Eni) e i privati che hanno continuato a innovare (Luxottica, Benetton, Fininvest). Tuttavia anche in queste imprese persistono anomalie: Tronchetti Provera è il manager che specula senza rischiare nulla di suo; mentre del caso Berlusconi l'autore ricorda i motivi per i quali il "nuovo Centauro" ha "scalato" niente meno che l'Italia, a cui, com'è noto, lui e i suoi prepongono il sostantivo "azienda". Grande occasione sprecata.
Giandomenica Becchio
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