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Anno edizione: 2015
Anno edizione: 2003
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Un racconto sorprendente: per il finale, per il senso complessivo e per il personaggio di B, enigmatici, aperti. Sorprendente anche la struttura: che vira dalla descrizione realistica e ironica di un ambiente nuovo, quello degli studi legali della Wall Street del primo '800, verso la storia di un'ossessione, di una sorta di persecuzione passiva, fino a un finale tragico. Ricorda Dickens, I duellanti, i racconti "romantici" alla Gogol'. Poco noto l'incipit, variante americana del racconto dell'impiegato sfigato, tagliente nei confronti dei professionisti borghesi suoi datori di lavoro, perfetti campioni di falsa coscienza, venali ma convinti d'essere onesti e generosi. Ma forse M parla in realtà di un qualsiasi borghese, visto che le reazioni di fronte all'impossibile B sono quelle che avrebbe chiunque, anzi, sono fin troppo pazienti e tolleranti. Chi è davvero B? Volutamente l'autore riveste di oscurità il suo passato. Di mediocrità, di anonimato; ma pian piano egli diventa un personaggio gigantesco, in quel suo stile di vita ascetico, frugale e dedito alla "contemplazione", come un monaco buddista (ne sapeva qualcosa M?) o uno stilita. Contemplazione di un muro di mattoni, però. Cos'è quel muro, duro, intatto, privo di qualsiasi attrattiva? E' Dio? Come Dio comincia ad apparire all'uomo moderno, agli americani o almeno a quelli che frequentano Wall Street? B è l'Altro, personaggio frequente nella letteratura romantica e in M; indecifrabile, ingestibile. Irritante ma perturbante. Il folle, il toccato-da-Dio, il nichilista: non può esserci risposta definitiva, perché non l'aveva nemmeno M. Ecco perché la critica ci si esercita da secoli, ed è del tutto legittimo, a differenza di quello che dice Celati nella sprezzante bibliografia finale. Interessante invece la sua traduzione (frutto però della collaborazione coi suoi studenti), dal linguaggio arcaico e sussiegoso, adattissimo alla voce del narratore-avvocato: però quel macchinosissimo "avrei preferenza di no"
Scrivere cosa penso di questo racconto? "Avrei preferenza di no". La storia non è entusiasmante, ma i due personaggi principali sono troppo originali, troppo al di fuori dei canoni per non amarli. Certo non è consigliabile a chi ama le storie con un inizio uno svolgimento ed una fine, perchè sebbene ci sia una sorta di fine, l'inizio e lo svolgimento rimangono a discrezione dell'interpretazione che ogni lettore ne da.
non saprei, bello, ma la mia chiave di lettura non vede bartleby come protagonista ma l' avvocato
Recensioni
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recensione di Marenco, F., L'Indice 1991, n. 7
Ciò che rende interessanti le traduzioni di Celati è che già come autore in proprio lui sia così esclusivamente dedicato a "dar voce" alle cose. Come risulta anche dall'intervista che pubblichiamo qui accanto, nella sua scrittura le preoccupazioni principali non sono i fatti, i personaggi o l'intreccio, ma la voce, cioè la cadenza, la forma, o come lui dice la tonalità emotiva - ciò che viene puntualmente confermato in sede critica nell'introduzione a questo famoso racconto dell'Ottocento americano: "I cosiddetti 'fatti' d'un racconto sono solo una segnaletica per attirare la nostra attenzione verso un nodo di tonalità emotive".
Al centro della sua pagina c'è un enorme, debordante, ipernutrito narratore, personificazione di quella predisposizione e abitudine ad ascoltare e riferire, a ripetere e mimare, a ricordare e trasmettere nel tempo, a pubblici sempre nuovi e diversi, che tiene in moto la ruota infinita dei racconti. Una voce, un narratore nel quale parlano infatti le mille voci e i mille narratori della tradizione, scritta e orale, accavallando accenti e tic, stili e ghiribizzi, senza un'identità precisa, e anzi con infinita mutevolezza. Un esempio da "Le avventure di Guizzardi": "...per via c'era un vecchio simulante mendicità onde accrescere le sue ricchezze già nascoste il quale costui al vedermi con fiori nelle mani irrideva forte sempre: 'Fiori!' Come annuncio di venditore che voglia offrire la propria merce ai passanti. Ciò che indubbiamente non gradivo spesso gettando insulti spesso minacce di morte a lui", e uno, parodistico, da "Lunario del paradiso": "Andarci? Non andarci? Questo è il dilemma. Se cedere ancora una volta alle voglie di rivedere una faccia, e poi cadere nella disperazione fumandomi un milione di sigarette, oppure prendere le armi contro un mare di guai e contrastandoli por fine ad essi, non si sa come. Dormire, sognare forse, quello sì. Sogni moltissimi che facevo nella camera a fiorellini sotto l'angolo del tetto..." Può un orecchio così libero e aperto, così sacrilegamente invadente, adattarsi alla pensosità umbratile, alle sensibilissime sonde dell'ultimo Melville? Questo è il dilemma!
Tutto dipende, naturalmente, da come ci si dispone a leggere quella famosa frasetta che lo scrivano Bartleby ripete di fronte a ogni domanda, a ogni sollecitazione del mondo - "I would prefer not to"-, opponendo a tutti la sua indifesa, sommessa, eppure assoluta passività. Bartleby compare nel centro della modernità - l'attività e l'accumulazione di un mondo votato al progresso e dominato dalla comunicazione convenzionale e standardizzata, ben rappresentato nell'ufficio laborioso di un avvocato newyorkese - con lo scandalo di una presenza inconcepibile, e di una risposta che non è una risposta ma un rifiuto della comunicazione.
Celati accoglie e accentua il tono fra l'innaturale e il capriccioso che quella frase ha in inglese, e la rende con un lambiccatissimo "avrei preferenza di no", che ci sorprende e ci irrita proprio come il traduttore certamente vuole: è contro questo macigno improvvisamente caduto da un altro mondo sulla strada della reciprocità che vanno a infrangersi gli sforzi affannosi che l'umanità compie per tenere aperto un passaggio alla volta di Bartleby, per capirlo e controllarlo e dominarlo ancora, quell'inesplicabile individuo, in qualunque modo possibile.
Nel testo melvilliano il racconto è fatto dal solerte avvocato che impiega Bartleby, e che parla con la voce molto mediana e moderata del buon senso, completamente identificato con la dimensione normale della vita; uno che non si pone obiettivi troppo alti, che tiene alla considerazione dei grandi, che conserva un giusto senso della misura, e non è privo di ideali e slanci umanitari - sempre contenuti nell'ambito del ragionevole, sempre parti del mondo possibile - e che dal comportamento di Bartleby viene completamente sconvolto. Con tutta la sua imprevedibilità, il confronto è allora fra la voce della normalità americana e la voce dell'anormale e del peregrino, secondo un contrasto che era già emerso nel centro della narrativa di Nathaniel Hawthorne, e che il suo amico Melville porta direttamente nella modernità letteraria: egli infatti fa del problema del disadattamento e dell'isolamento un problema di linguaggio, di contrapposizione fra la parola tutta spiegata nel tentativo di comunicare secondo le più elaborate mediazioni sociali, e una parola concentrata in una sua caparbia, impossibile assolutezza, e quindi illimitata o nulla nella sua significazione: una parola modernamente "opaca".
Com'era da prevedere, l'avvocato presta a Celati una nuova figura di narratore, ma di un narratore per nulla attuale, un po' démodé e manierato, che lui va a pescare nelle pieghe della "nostra" tradizione, in quel grande territorio che è il romanzo ottocentesco, e internamente ad esso, in quell'angolo di puro piacere dell'ascolto e della narrazione disinibita che è la pagina di un Nievo: "A volte un procuratore legale, ch'aveva affari con me in comune e capitava nel mio ufficio, trovando che non v'era nessun altro oltre lo scrivano, tentava d'ottenere da lui qualche preciso ragguaglio circa dove io fossi; ma senza far caso alle sue vane ciance, rimaneva Bartleby immobile all'impiedi nel mezzo della stanza..."
Non credo che c'entri, nella scelta di questa voce così particolare, una preoccupazione di mimesi storicamente accurata, tant'è vero che una mano simile si ravvisa in un'altra traduzione pubblicata da Celati negli ultimi tempi, "La favola della botte" di Jonathan Swift - un testo settecentesco -, credo invece che c'entri il senso del contrasto di cui si diceva, fra due modi di vivere il discorso; e non credo di sbagliarmi molto nell'assegnare alla traduzione di "Bartleby" una posizione primaria nell'universo narrativo di Celati. Perché - la nostra intervista ne fa ancora fede - "Bartleby" ripropone in ogni sua pagina quella divisione fra parola ancora costruttiva, fiduciosa e obbediente ai modelli prevalenti, alle mediazioni sociali, e parola libera ma "fallimentare", già vincolata al rispetto e alla forza del silenzio, quell"'idiosincrasia" unica e perenne che il nostro narratore riconosce come sua, e sulla quale si attesta ormai ogni sua richiesta di dialogo.
L'edizione è corredata da un'acuta introduzione, da una scelta di lettere che Melville scrisse tra il 1850 e il '52 (il periodo di composizione del racconto) e da un breve resoconto dl ben 89 interpretazioni sfornate dall'industria accademica, messe lì con perversa malizia per farci tutti arrossire di fronte alle autorevoli sciocchezze che si possono dire. In risposta alla quale, io dico che Gianni dovrebbe dedicare un po' di tempo a correggere le bozze, per non lasciare tanti nomi e titoli errati.
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