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Accattivante e coinvolgente. Una bellissima introduzione alle nanotecnologie. Chiara ma mai saccente e discettante.
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Qual è la rappresentazione che ci facciamo degli oggetti piccolissimi o grandissimi, quelli che stanno su una scala non commensurabile al nostro corpo? Lo sviluppo del microscopio e del telescopio ottico hanno rappresentato una formidabile e rivoluzionaria espansione del mondo che ci circonda, consentendoci di utilizzare le modalità sensoriali familiari alla nostra specie e di estenderle a una scala spaziale che va dai milionesimi ai miliardi di metri. I due estremi hanno in realtà avuto sorte diversa: lo studio dell'infinitamente grande e infinitamente lontano ha occupato per secoli un posto predominante nella formazione dell'immaginario collettivo; un po' diverso è stato il destino dell'infinitamente piccolo. Ormai da generazioni impariamo, fin dalla scuola di base, che la materia è composta da atomi, ma abbiamo accettato l'idea che sono cose che non si possono vedere, e nemmeno manipolare.
Negli ultimi decenni il quadro è cambiato drammaticamente. Le capacità di osservazione e di manipolazione si sono spinte a livello dell'atomo e delle piccole molecole, aggregati di pochi (cento? diecimila?) atomi. È nato il regno delle nanoscienze, o, se si considera principalmente l'aspetto applicativo, delle nanotecnologie. Cosa sono? Nell'accezione condivisa, si tratta di quelle tecniche che consentono di caratterizzare e modificare la struttura della materia a una scala mille volte più piccola di quanto possiamo osservare con gli strumenti ottici tradizionali, il miliardesimo di metro, per l'appunto il nanometro.
Il libro di Gianfranco Pacchioni, chimico e scienziato dei materiali milanese, è un'affascinante introduzione a questo mondo, alla sua storia, alle sue promesse e alle sfide che pone al nostro futuro. Ogni capitolo inizia con una citazione di Primo Levi: tutte colpiscono per la capacità di prefigurare un futuro che in molti casi è già diventato realtà. Utile e chiara è la ricostruzione storica, tratteggiata con la vivezza e la partecipazione di chi le ha vissute in prima persona, delle tappe che hanno segnato lo sviluppo delle nanotecnologie e dei loro protagonisti.
La data di origine delle nanotecnologie viene fatta risalire a una conferenza del 1959, in cui il famoso fisico Richard Feynman sostenne che sarebbe stato possibile "disporre gli atomi nel modo che vogliamo". Per circa vent'anni non se ne parlò molto, e solo a metà degli anni ottanta, grazie a una serie di rilevanti scoperte e innovazioni tecnologiche, il termine cominciò a essere utilizzato diffusamente. L'innovazione ha seguito due strade parallele: da una parte l'invenzione di tutta una serie di tecniche di analisi che andavano al di là dell'uso della luce visibile: dalle varie microscopie elettroniche al microscopio a effetto tunnel all'Afm, microscopio a forza atomica, in cui una leggerissima punta sfiora la superficie del campione (che può essere anche una cellula vivente) e ne descrive la topografia grazie a un'interazione che potremmo sommariamente definire meccanica. D'altra parte, lo stesso microscopio (come in parte anche quello a effetto tunnel) può essere usato per staccare singole molecole e collocarle in maniera regolata e ordinata in una nuova posizione (proprio quello che profetizzava Feynman). A questa classe appartengono anche le tecniche di nanolitografia (incisione su sottili laminette di silicio) usate nella produzione dei micro e nanocircuiti sempre più miniaturizzati, che hanno consentito la crescita esponenziale delle capacità di memoria e di calcolo dei microprocessori alla base di una miriade di oggetti di uso quotidiano, dal computer al telefono cellulare.
Ma oltre alle tecniche di indagine e di manipolazione (in parte proprio grazie a esse), il mondo nano si sta popolando di nuovi oggetti creati da una chimica che sfrutta l'approccio bottom up (mettere insieme tanti oggetti piccoli per farne uno di dimensioni maggiori e di proprietà controllate). Questo approccio ha particolare rilevanza in un campo di applicazione sensibile e di per sé già in rapida evoluzione come quello delle biotecnologie. Un capitolo del libro affronta le sfide delle nanobiotecnologie alla ricerca scientifica e alla medicina: dalle nanoparticelle mirate per "cuocere" in maniera selettiva cellule tumorali senza danneggiare il resto dei tessuti, a nuovi strumenti diagnostici, alle possibilità di costruire sistemi di calcolo basati sulle proprietà del Dna.
Un'altra fondamentale sfida concettuale che le nanotecnologie pongono è quella delle leggi della fisica appropriate per trattare livelli di miniaturizzazione sempre più spinti, quelli che hanno consentito di immagazzinare quantità esponenzialmente crescenti di informazione in un chip. A livello dell'atomo e dell'elettrone, le leggi della fisica classica devono lasciare il posto a quelle della meccanica quantistica, che esce così dalle trattazioni teoriche per diventare strumento di produzione di nuovi oggetti e di realizzazione di nuove tecnologie. Il computer quantistico segnerà la fine del chip al silicio? Probabilmente sì, anche se è azzardato fare pronostici sul quando.
Altri capitoli trattano di diversi campi di applicazione, dalle superfici autopulenti ai nanocatalizzatori, fino alla produzione e stoccaggio dell'idrogeno, grande promessa come fonte di energia.
Ma come tutte le sfide, sarebbe cieco (anche se la cecità è molto diffusa) non chiedersi quali siano i rischi e le possibili ricadute non calcolate di questo rapido irrompere di nuove tecnologie nella nostra vita: in uno degli ultimi capitoli Pacchioni affronta con attenzione questo aspetto, legato al fatto che nanoparticelle di vario tipo sono già oggi presenti in molti oggetti di uso quotidiano, dalle creme solari a parti meccaniche delle auto, e quando rilasciate nell'ambiente o a contatto con gli esseri viventi, possono, proprio perché della stessa scala dei componenti cellulari, portare a interazioni e riposte biologiche non prevedibili sulla base di quanto sappiamo delle stesse sostanze strutturate su una scala maggiore. E l'autore, se non condivide gli allarmi ingiustificati, ribadisce la necessità di studiare e di capire, per non farci sfuggire di mano i nuovi strumenti che stiamo creando.
Questo aspetto è anche uno di quelli affrontati in un bel dossier, Il nanomondo che verrà, pubblicato nel numero di agosto 2007 dalla rivista "Sapere". Vi si trovano i contributi di Elisa Molinari e Lucia Covi, che ci introducono al mondo delle nanoimmagini, nuova forma di rappresentazione che, con tecniche di elaborazione dell'immagine che vanno al di là della fotografia tradizionale, getta un ponte fra l'immaginario e il "visibile" attraverso cui si può entrare nel nanomondo e cominciare a familiarizzarsi con esso a partire dal lato, potentemente coinvolgente, del piacere estetico. In un altro contributo, Giorgia Guerra affronta i nuovi problemi posti dalla nanomedicina alle normative europee nel campo della tutela della salute pubblica. Ma vorrei richiamare l'attenzione sul contributo introduttivo di Federico Neresini, che tratta dell'impatto sociale delle nanotecnologie, della loro percezione e accettazione da parte del pubblico. Un paio di punti mi paiono di grande rilevanza: il fatto che, essendo ancora agli inizi, siamo in grado (forse) di non ripetere gli errori commessi con le biotecnologie, che hanno sottovalutato la necessità di informare e di chiarire limiti e problemi della nuova tecnologia; e l'asserzione, basata su dati e ricerche, che non sempre l'avversione o la percezione di un rischio dipende dalla disinformazione o dal basso livello di conoscenza. Sembra quindi non funzionare il modello, sovente proposto, per cui compito di scienziati e media è quello di spiegare alla gente ignorante quanto sono belle e ricche di promesse le nuove tecniche; piuttosto, sarebbe auspicabile un processo di informazione e di influenza reciproca, in cui gli "esperti" e gli utilizzatori si parlino e costruiscano insieme il quadro entro cui sviluppare non solo nuovi strumenti tecnologici, ma anche gli strumenti sociali in grado di controllarne le conseguenze. Davide Lovisolo
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