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Da New York a Santa Fe. Terra, culture native, artisti e scrittori nel sudovest (1846-1930) - Bruno Cartosio - copertina
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Da New York a Santa Fe. Terra, culture native, artisti e scrittori nel sudovest (1846-1930) - Bruno Cartosio - copertina
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Descrizione


Alla fine del secolo scorso il New Mexico richiama una schiera di pittori, antropologi, archeologi, scrittori e intellettuali conquistati da scenari maestosi e dalla religiosità delle etnie di indiani pueblo, navajo e hopi. Taos e Santa Fe diventano le principali "colonie artistiche" americane e la regione si afferma come la principale meta turistica degli Stati Uniti. Come allora si disse "New York andava in New Mexico": alla ricerca di un'identità di cui si erano perse le tracce nelle metropoli rumorose e artificiali, pittori, scrittori, e antropologi fissano l'immagine di luoghi pittoreschi e romantici dando vita a una delle esperienze più interessanti nella storia della cultura statunitense.
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Dettagli

1999
1 gennaio 1999
384 p.
9788809217737

Voce della critica


recensioni di Testi, A. L'Indice del 1999, n. 10

Come accade spesso con i buoni libri di storia, l'oggetto della ricerca di Cartosio sembra limitato e periferico: il New Mexico fra metà Ottocento e gli anni venti del Novecento e, al suo interno, Santa Fe (l'antica capitale spagnola), Albuquerque (la città nuova yankee) e Taos (il villaggio degli indiani pueblo). Ma il punto di vista è amplissimo e, con un vero tour de force storiografico, abbraccia questioni centrali per la storia degli Stati Uniti. Cartosio fa riferimento soprattutto alla New Western History, la storiografia che negli ultimi decenni ha mutato il modo in cui il West, questo luogo decisivo della costruzione storica e simbolica della nazione e dell'identità statunitense, è studiato e percepito. Ed è al suo meglio, per raffinatezza e radicalità di sguardo, nella storia sociale e culturale. Di un'unica cosa mi lamento, e non riguarda il testo bensì le illustrazioni - che non ci sono e di cui si sente la mancanza, data la rilevanza della dimensione visuale nei ragionamenti dell'autore.

Il New Mexico divenne parte degli Stati Uniti nel 1848, quando fu strappato al Messico con una conquista militare i cui frutti comprendevano l'intero Sudovest, dal Texas alla California. Dopo l'annessione fu oggetto di conquista economica yankee o, meglio, nel lessico locale, anglo; una gigantesca speculazione espropriò, con trucchi di dubbia o nessuna legalità, le terre di americani nativi e messicani. Il ceto dirigente del territorio si formò quindi intorno a una delle organizzazioni politico-affaristiche-criminali più note del West, il Santa Fe Ring o cricca di Santa Fe. Tralascio qui di raccontare come da conflitti del genere sia emersa la figura storica e leggendaria di William Bonney detto Billy the Kid, il fuorilegge new mexican (ma era un irlandese nato a Brooklyn).

Dopo l'arrivo della ferrovia, nel 1880, iniziò lo sviluppo moderno caratterizzato dall'esplosione dell'"industria della salute". Dalle città della costa orientale e del Midwest giunsero migliaia di persone affette da malattie polmonari, che cercavano conforto nel clima salubre della regione. C'erano dei poveri fra loro, e questo era un problema; ma molti erano benestanti o ricchi ed erano i benvenuti. Per accoglierli nacquero sanatori, stazioni termali, case di riposo, campi estivi, ranchos dediti all'agriturismo. In effetti, più della metà dei primi residenti anglo del New Mexico venne per queste ragioni.

Fra i nuovi arrivati c'erano artisti, scrittori e scienziati che furono sedotti dalle bellezze naturali e dalle peculiarità storico-culturali del luogo, e restarono a vivervi. All'inizio del Novecento, fecero di Santa Fe e Taos le più note "colonie artistiche" degli Stati Uniti. Cartosio ricorda che il territorio del New Mexico fu accettato come Stato nell'Unione molto tardi, nel 1912, e che ciò fu dovuto al prevalere in esso di popolazioni di origine indiana e messicana, di lingua spagnola, di religione cattolica. Per il suo ibridismo culturale e razziale, il New Mexico era l'"anomalia della repubblica". Ciò costituiva, agli occhi delle élites nazionali, motivo di sospetto e repulsione. Agli occhi degli intellettuali che vi si stabilirono, era invece motivo di curiosità e attrazione.

Il New Mexico era, negli Stati Uniti, una delle aree di più antico contatto fra popoli nativi e popoli europei (spagnoli e angloamericani), e questo contatto "triculturale" generò incontri, contaminazioni, conflitti e complesse gerarchie. Gli anglo ritenevano gli indiani una razza inferiore, e i messicani dei "mezzi-indiani" non molto migliori. Anche le élites messicane erano della stessa opinione; si pensavano superiori per "purezza di sangue" spagnolo alle masse meticce, e svilupparono per se stesse un'identità hispano-americana. In nome del passato spagnolo cercarono l'alleanza con le élites yankee, che a loro volta trovavano quel passato, popolato di signori, gran dame ed eleganti missioni francescane, tanto romantico.

Nel New Mexico era quindi particolarmente evidente che anche il West era un crogiolo di culture e stratificazioni etniche, addirittura più intricato di quello delle città dell'Est, quelle dove all'inizio del Novecento si cominciò a teorizzare l'esistenza di un melting pot. La New Western History ha sottolineato questo aspetto della storia nazionale per tutta la regione a ovest del Mississippi. E non furono solo l'America indiana, l'America latina e l'Angloamerica a intersecarsi colà, ma anche l'Afroamerica (grazie alle migrazioni interne: molti cowboy, in effetti, avevano la pelle nera) e naturalmente l'Asia.

Questa sembrerebbe una constatazione ovvia se non si scontrasse con una interpretazione secolare, fondata dallo storico Frederick J. Turner a fine Ottocento, che ha visto nel West solo terre vergini disabitate, occupate dalla marcia trionfale degli euroamericani. Una simile interpretazione ha consentito a lungo di ignorare l'esistenza stessa di indiani, messicani, asiatici e afroamericani come soggetti attivi nel plasmarne la storia. E dire che i contemporanei di Turner sapevano bene delle attività di questi soggetti, se non altro per combatterli. Cartosio riporta un'affermazione agghiacciante di Frederic Remington, il celebre illustratore della vita nel West, che scrisse a un amico nel 1893 (facendo di ogni erba etnica un unico fascio): "Ebrei, indiani, cinesi, italiani, tedeschi - i rifiuti della terra che io odio: ho un qualche Winchester e quando la carneficina comincerà, io sarò in grado di farmi fuori la mia parte di loro".

Il fatto è che l'immagine del West fu creata non nel West stesso, bensì nelle metropoli dell'Est, da illustratori come Remington, da storici come Turner e Theodore Roosevelt, da scrittori di romanzi western come Owen Wister, dagli spettacoli di Buffalo Bill, dal cinema fin dalle sue primissime prove. E fu un'immagine creata da bianchi convinti della superiorità della "razza anglosassone", per i quali gli indiani (e i non-bianchi) o scomparvero dalla vista o furono ridotti a stereotipi: nemici, bellicosi, primitivi. Si trattò di un caso particolare del modo in cui la cultura europea del tempo guardò con "occhi imperiali" ai non europei, sempre abbassandoli al di sotto dei propri standard di umanità, con l'indifferenza dei conquistatori per i conquistati.

E tuttavia il New Mexico produsse anche un modo diverso di guardare al West. Ciò fu merito degli intellettuali (anch'essi, in verità, bianchi, metropolitani, spesso di New York) che si trasferirono a Santa Fe e Taos dalla fine dell'Ottocento in poi. Archeologi ed etnologi come Adolphe Bandelier, pittori come John Sloan e Georgia O'Keefe, organizzatori culturali come Mabel Dodge Luhan, scrittori anche europei come D.H. Lawrence, produssero collettivamente l'unica immagine degli indiani non denigratoria nella storia americana. Essi non erano portatori di un'ideologia di scontro e di conquista. Descrissero con rispetto la vita quotidiana degli indiani, le loro forme di socialità, le abilità artigianali, le cerimonie sacre, la spiritualità; e ne conservarono la memoria in prestigiose istituzioni di ricerca.

A questi intellettuali Cartosio dedica la seconda parte del libro, dalla quale emergono alcune spiegazioni del loro atteggiamento anomalo, che mi pare di poter riassumere così. Innanzi tutto, essi si trovarono a contatto con indiani come pueblo e hopi, che, pacifici agricoltori e artigiani, in nessun modo potevano essere definiti bellicosi e "selvaggi". In secondo luogo, essi arrivarono piuttosto tardi nel Sudovest, quando i wild Indians o indios bárbaros della regione, gli apache, erano già stati convenientemente sconfitti; la guerra era finita, la zona era sicura, e si poteva cominciare a romanticizzare i sopravvissuti. In terzo luogo e infine, questi intellettuali erano in fuga dalla modernità, dalla vita urbana, dal rumore di New York, e videro negli indiani i depositari di un rapporto "autentico" con la natura che essi pensavano di avere smarrito. C'era una radice anti-modernista nella loro ricerca.

In questo schematico riassunto credo di avere usato un linguaggio più scettico di quello di Cartosio nel giudicare il senso dell'operazione culturale degli intellettuali di Santa Fe. In effetti, non è che l'autore non veda il loro paternalismo elitario, o il fatto che la loro "estetica del primitivo" alimentasse quasi subito l'estetica del turismo di massa, delle escursioni organizzate dai tour operators per "vedere" gli indiani "pittoreschi" e acquistare i loro prodotti artigianali; anzi, anche di questo offre analisi colte e sofisticate. Ma forse non sottolinea abbastanza come anch'essi guardassero (temo, ahimè, inevitabilmente) con occhi imperiali agli "oggetti" della loro fascinazione, e si comportassero di conseguenza.

Già negli anni venti il luogo sembrò a Lawrence un "grande parco dei divertimenti per i bianchi statunitensi"; e Edmund Wilson vi trovò "una popolazione straordinaria fatta di ricchi, scrittori e artisti che posano da indiani, cowboy, cercatori d'oro, desperado, messicani e altre specie in via d'estinzione".

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Conosci l'autore

Bruno Cartosio

1943

Bruno Cartosio (1943) insegna Storia dell’America del Nord all’Università di Bergamo. Si occupa da anni di storia sociale e culturale degli Stati Uniti. Ha fondato e diretto “Ácoma. Rivista Internazionale di Studi Nordamericani”. Tra i suoi volumi: Anni inquieti. Società, media, ideologie negli Stati Uniti da Truman a Kennedy (1992), L’autunno degli Stati Uniti (1998), Da New York a Santa Fe (1999), Contadini e operai in rivolta (2003), Più temuti che amati. Gli Stati Uniti nel nuovo secolo (2005), Stati Uniti contemporanei. Dalla guerra civile a oggi (2010). Con Feltrinelli ha pubblicato New York e il moderno. Società, arte e architettura nella metropoli americana (1876-1917) (2007) e I lunghi anni sessanta. Movimenti sociali...

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