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Anno edizione: 2008
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I quindici racconti di questa raccolta catturano momenti emblematici delle vite ordinarie di vari personaggi che vivono a Dublino e dintorni raccontandone le storie quotidiane. Nel complesso Joyce fotografa la sua città natale enfatizzandone due tematiche principali: una soffocante e diffusa atmosfera di paralisi morale e una propensione generalizzata alla fuga, esigenza che lo stesso autore a un certo punto metterà in atto trasferendosi altrove. I racconti di Gente di Dublino sono narrati in modalità ancora tradizionali rispetto all’Ulisse e sono articolati in quattro sezioni che rappresentano altrettante fase esistenziali: l’infanzia, l’adolescenza, la maturità e la vita pubblica. Nel suo insieme il libro evidenzia l’immobilità morale di molti personaggi di Dublino, che amano la loro terra e magari ignorano che dovrebbero andarsene, che ci provano senza poi averne la forza, che non sanno come essere felici e talvolta (spesso, in effetti) cercano un conforto illusorio nell’alcool. Joyce molto spesso ci fa stare dentro la testa dei protagonisti dei racconti grazie alla tecnica del discorso indiretto libero, e a volte ci mette con loro in una condizione altamente simbolica facendoci vivere insieme a loro un’epifania, uno di quegli momenti rivelatori di un’intera vita. E poi c’è Dublino, ovviamente, scenario costante delle storie, con i suoi luoghi d’interesse come Grafton Street o il Trinity College. Le storie che più lasciano il segno a mio avviso sono Eveline, in cui una ragazza riflette alla prossima partenza per i mari del Sud per vivere una nuova vita col fidanzato in Argentina (ma all’ultimo non ha la forza per abbandonare Dublino) e I morti, il lungo racconto conclusivo che narra di una grande festa e del successivo ritorno nella loro camera d’albergo di Gabriel e Gretta, e dell’epifania evocata in lei dai versi di una canzone capace di ricordarle il suo primo amore di Gallway, un ragazzo fragile che forse si uccise pur di rivederla un’ultima volta.
La mia esperienza joyciana inizia leggendo l’Ulisse, un capolavoro che mi ha assorbita completamente e mi ha lasciato una gran voglia di approfondire l’autore. È così che mi sono ritrovata tra le mani “Gente di Dublino”, un’opera che è un banco di prova in cui si delineano personaggi ed esercizi di stile che si svilupperanno in seguito nell’Ulisse e rispetto a quest’ultimo è decisamente di più facile portata, più immediata, ma non priva di una sua complessità. I racconti di Joyce infatti non hanno un vero inizio né una fine ben precisa: cominciano in una sorta di medias res e il finale lascia libero spazio alle deduzioni del lettore. Per ciò che sono riuscita a percepire è come se i racconti costituissero una passeggiata dal centro alla periferia di Dublino raccogliendo le varie voci e gli episodi dei passanti che arrivano nella loro immediatezza senza conoscere il prima né il poi. Joyce mette in scena la vita attraverso le sue varie fasi con il suo stile inconfondibile offrendo uno squarcio di una Dublino imperfetta, piena di debolezze, ma proprio per questo vera.
Avevo iniziato questo libro con l’idea di leggere ULISSE dello stesso autore. Sono riuscita a terminarlo forse grazie al fatto che si tratta di racconti che si leggono facilmente, ma è l’aria che si respira che li rende pesanti. L’autore, praticamente, sembra fotografare alla maniera verghiana, ma con un passo più lento, la realtà umana di Dublino, che non sprigiona certo vita. L’umanità descritta sembra paralizzata, triste, avvolta da un grigiore asfissiante. Mi son detta: Joyce non è per me, per lo meno in questi anni della mia vita.
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