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L' altruismo e la morale - Francesco Alberoni,Salvatore Veca - copertina
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L' altruismo e la morale
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L' altruismo e la morale - Francesco Alberoni,Salvatore Veca - copertina
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Dettagli

1992
126 p.
9788811520061

Voce della critica


(recensione pubblicata per l'edizione del 1988)
recensione di Santambrogio, M., L'Indice 1988, n. 7

Alberoni. Affermare perentoriamente che scrive delle banalità, ma non cercare di esporre il punto di vista non banale.
Veca. Chissa perché si è messo a scrivere un libro con Alberoni.
[Dalla nuova edizione italiana del Dizionario dei luoghi comuni di G. Flaubert]

Credo che se si trattasse di scegliere tra il vero e il ben trovato una gran quantità di intellettuali italiani sceglierebbero il secondo: dire semplicemente la verità sembra troppo poco, una cosa che potrebbero dire tutti, mentre pochi riescono ad essere originali, a stupire. Come si spiega questa convinzione che la verità in fondo è banale e non conta poi tanto? Probabilmente c'è sotto anche l'idea tipicamente umanistica che non ci sia nulla di nuovo sotto il sole e insieme una concezione ancora marinista della poesia e di ogni tipo di prosa. Ma, secondo me, la ragione principale dev'essere un'altra, se si è convinti che tutto quello che un intellettuale dice ha solo un peso limitato su ciò che la gente pensa e soprattutto su ciò che la gente fa (ad esempio perché i fattori che muovono le azioni degli uomini sono completamente diversi dalle idee che essi se ne formano coscientemente), allora necessariamente dire la banale verità non è molto importante. Lo sarebbe se ci si sentisse responsabile delle conseguenze, anche pratiche, di ciò che si dice. Invece le belle trovate non hanno conseguenze di rilievo, in genere. (Non vale obiettare che ci sono stati intellettuali i quali si sono sentiti profondamente responsabili e proprio per questo non hanno detto quella che credevano essere la verità, e hanno consapevolmente detto il contrario. Infatti l'esistenza di alcuni scrocconi non dimostra affatto che si può sempre fare a meno di pagare il biglietto: possiamo dire a volte delle bugie proprio perché la maggior parte della gente normalmente dice la verità). Pensare che le idee possano influire direttamente sulle azioni, questo è l'illuminismo. La prova migliore di quello che ho detto sta nel tono di lieve compatimento con cui nella nostra cultura si è spesso pronunciato questo termine, in locuzioni come "peccato di illuminismo".
Tutto questo era per commentare l'accusa, che spesso si è sentita rivolgere ad Alberoni, di dire cose vere ma banali. Detto ciò, bisogna subito aggiungere che è stupefacente che la stessa accusa sia stata rivolta anche a questo libro, scritto con Salvatore Veca, "L'altruismo e la morale", da parte di alcuni recensori. Forse volevano lasciar capire di non averlo letto, perché tutto si può dire di questo libro tranne che sia banale. Il libro fa perno su alcune tesi, che io formulerei così. In primo luogo, le radici dell'etica di trovano su due piani, diversi e paralleli: quello della spinta altruistica che coinvolge il sentimento e l'emozione e quello della razionalità, che si rivolge imparzialmente e impersonalmente a tutti. L'altruismo è uno slancio spontaneo che si manifesta in forme diverse: amore materno, amicizia slancio di solidarietà,... indipendenti o addirittura contrapposte alla ragione. "Eppure questa forza, da sola, non fa la morale. La morale nasce solo se la ragione prende a carico l'impulso generoso, oblativo, altruistico e lo porta a buon fine".
Certo, questo non è del tutto nuovo, poiché nella storia della filosofia è esistita una rispettabile corrente di pensiero che ha fatto della simpatia (un sentimento solo un po' più compassato dell'altruismo - si tratta di una corrente britannica) il fondamento della morale: ma non mi viene in mente nessun altro che abbia sostenuto questa tesi: non certo Kant, che vuol fondare la morale sulla sola ragione, non certo gli utilitaristi per i quali l'altruismo è solo una delle possibili fonti di piacere o dolore e non ha nessun particolare ruolo nella derivazione del principio della massimizzazione dell'utilità.
Naturalmente Alberoni e Veca cercano di farci credere che la loro tesi, della duplice radice della morale, è condivisa anche dall'utilitarismo, anche dal kantismo, che comunque non potrebbero fare a meno della spinta altruistica. Il primo avrebbe anzi costituito "il tentativo più forte di dare una definizione razionale dell'altruismo" (p. 49) e Kant rappresenterebbe nella posizione del legislatore universale l'esperienza di partecipazione all'amore divino, che è il prototipo dell'esperienza altruistica. E persino la felicità di cui parla l'illuminismo francese "non è la felicità personale, la felicità egoistica ma la felicità di tutti e, quindi, la sua radice è altruistica, generosa" (p. 42).
Ma è solo un vecchio trucco del mestiere di filosofo quello di cercare di far credere che le proprie tesi, e soprattutto quelle più incredibili, sono semplicemente quello che l'uomo della strada, insieme a tutti i grandi filosofi del passato, ha sempre oscuramente creduto. Non è detto però che il tentativo riesca sempre. E a me sembra che anche Alberoni e Veca ammettano occasionalmente di aver tentato una forzatura. Come interpretare altrimenti un passo come questo: "L'utilitarismo ha cercato il suo fondamento nel fatto di poter dimostrare che, almeno nel lungo termine, e come tendenza probabilistica, io stesso sono avvantaggiato dal mio comportamento morale. Ma è evidente che una motivazione di questo genere, se soddisfa un filosofo, non è sufficiente per spingere le persone ad agire moralmente" (p. 62)? Questa sembrerebbe un'ammissione del fatto che il fondamento dell'utilitarismo non sta nell'altruismo.
Anche una tesi accessoria, che è tuttavia essenziale alla loro argomentazione, a me sembra discutibile, ma certo tutt'altro che banale. Alberoni e Veca danno per scontato che l'altruismo, come tutti i sentimenti, è personale, è rivolto ai singoli individui (la madre ama il proprio figlio), mentre la ragione è imparziale, è rivolta a chiunque e per questo è tendenzialmente universale. Ma essi stessi affermano poi che il sentimento e l'affetto possono rivolgersi ad entità collettive o addirittura astratte come la famiglia, la patria, la fede, il partito (p. 9). E un principio di universalità come "Ama il prossimo tuo come te stesso" non sembra abbia intrinsecamente a che vedere con la ragione. D'altra parte, dimostrare razionalmente un principio di imparzialità non è tanto semplice: l'argomento della "posizione originaria" di Rawls dovrebbe servire a questo. Quindi il rapporto tra altruismo e ragione non è così chiaro; anche se è probabile che esista un nesso tra ragione, universalità e uguaglianza degli esseri ragionevoli (sia come autori, sia come destinatari degli atti morali), non è chiaro che la ragione possa o debba "controbilanciare" la spinta altruistica. Tanto più che alcuni passi nei capitoli successivi affermano invece che la ragione concepisce come necessario il dovere e il dovere "subentra al vuoto lasciato dall'amore" (p. 63): dunque la ragione non controbilancia, ma sostituisce o prolunga l'altruismo. La morale è l'equivalente volontario, il "come se" dell'amore, ma continuo, uniforme, senza distinzioni o privilegi. E queste sarebbero banalità? Le guerre di religione si facevano per molto meno.
Terza tesi. Alberoni e Veca istituiscono un nesso molto stretto tra la Riforma protestante e l'etica moderna che è esemplificata bene sia dal comportamento dell'organizzatore razionale di un servizio nell'interesse di qualunque potenziale utente, sia da quello del produttore che fornisce al consumatore ciò che gli serve, al miglior prezzo. E inversamente connettono la mancanza di un'etica moderna nella cultura italiana (con la sua caratteristica separazione della morale dalla politica e dall'economia) e la mancanza di una riforma religiosa nel nostro paese. La morale razionale- affermano - è nata storicamente dall'impulso altruistico religioso esploso con i movimenti riformatori, a cui si è aggiunto il calcolo, la ragione che lo rende universale.
Ma non è una banalità affermare questo nesso, dopo Max Weber? Sì, se si trattasse della sua stessa tesi, ma "Weber ha sbagliato a pensare che questa mostruosità teologica (la dottrina della predestinazione come è formulata ad esempio nella "Westminster Connession*) abbia potuto nascete il mondo moderno" (p. 31), ha sopravvalutato gli elementi vetero-testamentari presenti nel movimento riformatore e si è lasciato sfuggire la ben più rivoluzionaria concezione dell'amore come agape che si è manifestata nel momento iniziale, creativo, nascente della Riforma. È da questa speranza che nasce il mondo moderno e la sua morale, come l'aurora dalle tenebre medievali. Questo recensore non possiede la competenza necessaria per valutare se questa tesi sia accettabile, ma non gli verrebbe mai in mente di giudicarla banale.
Non so invece se sia particolarmente originale il sesto capitolo, "Al di fuori della morale". Credo però che sia assolutamente vero. Dalla metà del secolo scorso, vi si dice, fa la sua apparizione la lunga ondata delle concezioni del mondo che fanno l'elogio del collettivo e del sociale e, avvilendo l'individuo, rendono l'etica semplicemente impossibile. Queste concezioni sostengono, più o meno, che una volta che si sia spiegato in che cosa consiste la direzione di sviluppo di una determinata situazione storica, o lo spirito del tempo, o la missione storica di qualche entità collettiva (nazione, classe, etc.), non rimane nient'altro da fare per spiegare il senso degli atti individuali: questi atti non hanno alcun altro senso che quello di partecipare al movimento complessivo, di muoversi all'unisono con gli altri; in particolare, non può dar loro un senso l'idea che l'individuo si fa di se stesso. Se a tutto ciò si aggiunge la teoria per cui ciò che un individuo pensa coscientemente non può essere quello che veramente motiva le sue azioni, le cui cause reali sono sistematicamente occultate (sono le forze quasi naturali del sociale, dell'inconscio, dell'irrazionale), allora è chiaro che per la morale non c'è spazio. Anzi, la morale è solo una menzogna da smascherare.
Secondo me, questa tendenza non si è affatto attenuata nel nostro secolo. Anche qui non solo si è continuato a sottolineare soprattutto gli aspetti pubblici o comunque collettivi di molti fenomeni, ma si è arrivati a sostenere che "occorre comprendere l"io' come qualcosa che nella sua essenza è un prodotto sociale e intersoggettivo" (Habermas). Recentemente, nel corso del dibattito sulla vocazione nazista di Heidegger, qualcuno ha sostenuto che non può avere senso per un individuo mettersi contro il proprio tempo, contraddire ciò che la stragrande maggioranza dei propri contemporanei afferma. Queste affermazioni intendono collocarsi su un terreno su cui semplicemente non si dà morale, ma questo non impedisce che siano, moralmente inaccettabili.
Tutto questo però, proprio perché è indubbiamente vero e tocca le radici più profonde dell'etica moderna e del rifiuto dell'etica, richiederebbe una discussione molto più ampia, non solo in questa recensione, ma nel libro stesso di Alberoni e Veca. Arrivo così a un'ultima osservazione, la più critica, su di esso. Questo è un libro tutt'altro che banale, e probabilmente dice molte cose vere. A differenza delle teorie che vedono nella morale una sostanziale menzogna, riconosce anche, implicitamente o esplicitamente, che ha importanza per le nostre stesse azioni che le teorie morali a cui crediamo siano vere. Ora, è un fatto che, in assenza di rivelazioni, l'unico modo che abbiamo per sapere se una tesi è vera, è quello di argomentarla razionalmente, di sottoporla al meticoloso vaglio dei pro e dei contro. Ma a me sembra che in questo libro ci siano più tesi a prima vista plausibili che non argomentazioni davvero convincenti. Il fatto che si tratti di un libro di carattere divulgativo non è una scusa: la prima cosa, e la più importante, che insegna l'etica razionale moderna è che vale la pena di argomentare razionalmente.

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Conosci l'autore

Francesco Alberoni

1929, Piacenza

È noto per i suoi studi sui movimenti collettivi e l’amore. Libero docente di Psicologia nel 1960, Libero docente di Sociologia nel 1961, Professore ordinario di Sociologia nel 1964 sempre a Milano. Membro del Binational Committe Olivetti Foundation - Ford Foudation-Social Science Research Council, poi Rettore dell'Università di Trento dal 1968 al 1970. In seguito ho insegnato a Losanna, a Catania e nuovamente all'Università di Milano Statale (1978). Nel 1986 ha spostato la cattedra nell'Istituto Universitario di Lingue Moderne (IULM). Lì ha costituito il Corso di Laurea in Relazioni Pubbliche e ha deciso di creare una nuova sede, dando poi vita all'Università di Scienze e Comunicazione IULM, dove ha svolto il compituo di Rettore creando anche...

Salvatore Veca

1943, Roma

Salvatore Veca (Roma 1943) ha insegnato Filosofia politica allo Iuss (Istituto universitario di studi superiori) di Pavia, di cui è stato vicedirettore. Dal 1984 al 2001 è stato presidente della Fondazione Feltrinelli. Delle sue opere ricordiamo: Saggio sul programma scientifico di Marx (1977), La società giusta. Argomenti per il contrattualismo (1982), Questioni di giustizia. Corso di filosofia politica (1991), Questioni di vita e conversazioni filosofiche (1991), La penultima parola e altri enigmi (2001), Il giardino delle idee. Quattro passi nel mondo della filosofia (2004), Le cose della vita. Congetture, conversazioni e lezioni personali (2006), Dizionario minimo. Le parole della filosofia per una convivenza democratica (2009), Etica e verità. Saggi brevi (2009)....

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