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Scoppi di botti e di bottiglie di champagne, i tappi saltano in aria e volano con traiettorie di stelle filanti, lasciando scie luminose, che s'incrociano in una grande stella a cinque punte.***
Di nuovo tappi e botti, che rapidamente trapassano nei tonfi delle palate di terra su una bara.Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
Con questo stupendo testo Magris ci presenta un grande spaccato letterario sul valore di quelle esistenze, grandi e sconvolte, che, per eccesso di sensibilità, finiscono per ottundersi, per raggiungere l'autodistruzione. Timmel è il simbolo di quelle vite che affondano nella negazione di sè, drammaticamente spezzate ma riflettenti significazioni illuminanti sulla dimensione più fragile ed oscura dell'animo umano. Vita distrutta, quella di Timmel, ma presentata con un linguaggio che resta cristallino anche nel momento in cui diventa elegante ed articolato sperimentalismo, naturalmente aderente alla complessià espressiva di una vita frammentata. Magris utilizza in questo romanzo, per la prima volta, un lessico plurimo, sviluppato secondo coordinate che vanno dal livello forbito e articolato, al dialetto triestino depurato e reso accessibile ai più; inoltre filastrocche, canzoni, gli interventi dell'amico Sofianopulo che, affascinato dalle suggestioni carnali, conciona Baudelaire. Se la letteratura vuol raccontare i destini, quelli falliti, come ritiene l'autore, hanno il senso di evidenziare i riferimenti essenziali di un'epoca e di vivere fino in fondo la difficoltà dell'individuo ad affermarsi in una società sempre più complessa. Il confine della verità però non viene abbattuto, non si offusca: resta il dramma individuale di un'esistenza rinchiusasi nel delirio della mente, per dimenticare di esistere, per voler assomigliare a un punto, a un nulla. Percezione più facile da sopportare della colpa e dell'incapacità a darsi una strada, a costruire la piena realizzazione del proprio sè. Magris, scrittore acuto e penetrante nel riflettere su ciò che è speranza e illusione nel contraddittorio mondo moderno, ha con "La mostra" messo a tema l'affascinante ed inquietante interrogativo sul confine che separa verità e retorica, normalità e degenerazione, presentando un "folle" degno di rappresentazione e celebrazione postuma, la cui malattia è l'esito di un percorso esistenziale segnato dallo smacco del fallimento e dal t
Recensioni
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"Ma adesso l'inferno s'incelesta, si riempie di grazia. Tanti sogni, meravigliosi - strade larghe, diritte, che finiscono in campagna o nel mare - la strada è larga, lunga fugge e s'assottiglia laggiù, nell'infinito, fino a coincidere col punto visivo... un punto, ecco. Io sono un punto, io è un punto. Un punto non ha estensione, non c'è, non è niente..."
Biografia del dissolvimento, quest'ultima opera di Claudio Magris rappresenta una vera svolta nella scrittura dell'autore. Prima di tutto l'uso di un genere mai prima praticato: una scelta istintiva, anzi neppure una vera scelta, così dice lo scrittore, perché la dolorosa vicenda umana del pittore Timmel, nella trascrizione letteraria, si è andata naturalmente configurando in testo teatrale pur senza dimenticare una forte vocazione narrativa nel dialogo dei personaggi e nelle stesse didascalie.
Vito Timmel ha trascorso la sua drammatica esistenza a Trieste dove è morto nel 1949 dopo 1000 giorni trascorsi nell'ospedale psichiatrico San Giovanni. Pittore di grandi quadri ("Un quadro ha da essere grande, duro come ogni grandezza, come la vita"), allievo di Klimt, vittima dell'alcol e della propria debolezza, sposa la donna che era riuscita risollevarlo dal degrado in cui era caduto. La moglie muore però dopo pochi anni e il processo di autodistruzione trova, nel dolore bruciante, una giustificazione "socialmente spendibile". Timmel ha una relazione con un'altra donna che però non accetta mai come autentica seconda occasione d'amore, anzi considera questo rapporto una colpa frutto della propria bassezza. Subentra la malattia mentale: il pittore perde gradualmente la memoria e le capacità intellettuali per cadere in una forma di demenza che lo riduce a una condizione mentale infantile.
Magris immagina l'allestimento di una mostra (da questo pretesto narrativo nasce il titolo) di quadri dell'artista triestino dopo la sua morte; e come si visita un'esposizione, senza cioè un percorso strettamente cronologico, così la vicenda si snoda unendo nel dialogo fasi temporalmente diverse della biografia e del percorso interiore di Timmel.
Personaggi, oltre allo stesso pittore, il direttore della mostra e quello del manicomio (che rappresentano la banale razionalità, l'artificio della cultura che tutto vuole spiegare e collocare in un preciso contesto), l'amico Sofianopulo, un uomo generoso e fedele anche se volgare e vagamente erotomane. Ma anche gli altri pazzi ricoverati al San Giovanni entrano fra le tante voci dialoganti, così come le sedie che, in quanto oggetti, possono essere testimoni credibili, realtà sicura e affidabile ("Eccoci - opache, buone e opache, neutre, indifferenti - appoggiati siediti sdraiati, di noi ti puoi fidare"). L'ospedale psichiatrico di Trieste è stato centro della grande rivoluzione compiuta da Basaglia e non è un caso che qui venga presentata la dimensione disumana del manicomio prima del rovesciamento del giudizio sulla malattia mentale compiuto dal grande psichiatra triestino.
Ma il nodo cruciale del testo, quello che è stato definito da Daniele Del Giudice "il gorgo", è rappresentato dal tema delle due donne della vita di Timmel, in particolare della prima, la moglie. Un abbietto sollievo viene avvertito dal pittore all'annuncio della mortale malattia della donna: "Lei si ammalò e io ne ebbi sollievo, perché quel dolore nobile e grande, per la sua morte che si avvicinava, spiegava, nobilitava, riscattava tutto...". È proprio questo il mistero di un essere che si è da tempo incamminato in un percorso di autodistruzione, di annullamento, che nel senso di colpa e nell'incapacità (incapacità prima di tutto a vivere) annienta le proprie energie intellettuali prima con l'alcol poi con la pazzia, fino a ridursi all'afasia. E la malattia, reale, disgregante, è interprete, reificazione di qualcosa che è già da tempo avvenuto in Timmel.
Claudio Magris utilizza in un testo aspro, doloroso e discontinuo, in modo preponderante il dialetto, in forma semplificata e fluida, leggibilissima anche per chi non sia giuliano. Restio e schivo da ogni forma di vezzo letterario o folklore, lo scrittore ha sentito l'esigenza di usare il linguaggio più naturale e immediato che ancora oggi è, per i triestini, il dialetto. La lingua italiana è messa in bocca al direttore della mostra e a quello del manicomio, e a Timmel stesso quando elabora alcuni pensieri, alcune "finzioni" o autoinganni, oppure quando la volontà di affidare ad altri (il duce, il manicomio) ogni scelta importante, ritornando ad una fase infantile deresponsabilizzata, gli appare come l'unica forma di libertà per lui possibile.
Parlare di un testo così denso e complesso in poche righe provoca, in chi scrive, una sensazione fortissima di inadeguatezza; leggerlo è invece un'esperienza intellettuale, un percorso negli inferi, la scoperta del male che si nasconde e si annida, creando orrore, in ogni uomo.
A cura di Wuz.it
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