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Un fallimento totale.Mi dispiace lasciare i libri a metà,ma qst proprio non l'ho retto.Magris scrive in un modo molto particolare che a volte non comprendo fino in fondo.Le storie di qst libro mi paiono sciocche e insulse,incomprese in gran parte.Si divaga su tante cose e le unisce tra loro in modo disarticolato,anzi non le unisce proprio.Sarà che non ho esperienza,ma Magris proprio non mi piace.
E' l'ideale prosieguo del viaggio iniziato con Danubio.Là il macrocosmo della Mitteleuropa, qui il microcosmo di luoghi familiari all'autore:il caffè san Marco, le lagune, il Carso in un percorso che ci conduce inevitabilmente al centro di noi stessi...del nostro microcosmo.Indispensabile.
Difficile e splendido!
Recensioni
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recensione di Beccaria, G.L., L'Indice 1997, n. 5
"Il provinciale più cosmopolita del nostro paese": così Franco Marcoaldi ha definito in un'intervista Claudio Magris, che ha corso Mitteleuropa e il mondo, ma che ora, in "Microcosmi", cerca riparo in luoghi minimi o appartati. Magris torna a osservare meticolosamente alcuni luoghi della sua vita, ne rintraccia meglio l'immagine, mostra grande attenzione per le cose, il piccolo, l'umile, il fuori mano: il Caffè San Marco e i giardini pubblici a Trieste, il Nevoso, la luce accecante di Cherso, dai colori spietati, la Levrera, dove l'estate pare di colpo arrestarsi, rimanere immobile, come un "roveto ardente", Lussino, Canidole, la Laguna di Grado. E finisce col tracciare l'immagine del proprio volto, come dice Borges citato in esergo. Non poteva mancare in questo quadro così autobiografico l'altro polo dell'esistenza di Magris, Torino, in pagine dove sono schizzati tratti dell'identità piemontese come entità che ha cercato in certi momenti della sua storia di dare ordine al caos; una cultura che per decenni, prima della perduta centralità, si è opposta allo spappolamento, alle indistinzioni, al gelatinoso del "postmoderno", in cui "tutto è interscambiabile col suo contrario e il ciarpame delle Messe Nere viene messo sullo stesso piano del pensiero di sant'Agostino", un momentaneo trionfo che "coincide, non a caso, con la crisi della "leadership" torinese nella cultura italiana, della linea che parte da Einaudi e Gobetti e da Gramsci e arriva a Norberto Bobbio". Nella sezione "piemontese" di "Microcosmi" ritroviamo anche tanti momenti di straordinaria arguzia che gli amici del Magris gran fabulatore già conoscevano nella loro versione orale, dal prete di Cambiano al garbato e ossequioso folle "Magistrato", che frequentava le aule e gli istituti dell'Università, alle vicende del germanista Giovanni Vittorio Amoretti studente nel collegio dei Padri Scolopi dove si parlava soltanto latino, in ogni momento e occasione della giornata. Questo libro è popolato di luoghi ma soprattutto di persone, delle loro storie, e anche di scintillanti rapidi ritratti, come quello di Saba, o di Biagio Marin, il grande albero, destinato a crescere in alto dando lungamente vita e frescura, ma pure a travolgere, nella sua crescita, le piante vicine: quel Marin che si sente immortale, a cui non spiaceva farsi celebrare in continuazione ("Ogni anno, l'oratore di turno, porgendo a Marin l'omaggio di tutti, esorcizzava con la dovuta discrezione l'ombra della sua possibile fine incombente, mentre lui ascoltava senza battere ciglio. Passavano gli anni e gli oratori, anch'essi non più giovanissimi, passavano a miglior vita e Marin era sempre là, fecondo di nuovi libri, naturalmente chiamato a sopravvivere ai suoi commentatori"). Tra i luoghi descritti nel libro spicca il caffè, osservatorio privilegiato: il caffè come la chiesa, aperta al viandante che passa per la terra e vuole riposarsi un momento.Due luoghi liberali, non si chiede a chi entra da dove venga e dove vada, sotto che bandiera militi; il caffè come porto di mare, universo di voci e di ciacole che si levano, si confondono, si spengono, dove si è soli e a un tempo in compagnia, dove le ore fluiscono amabili, noncuranti, quasi felici, dove si può chiacchierare, raccontare, ma dove, dice Magris, non è possibile predicare, tenere comizi, fare lezione, sopporti la mania del tuo vicino che si mangia le unghie, come lui sopporta i tuoi tic, non puoi tra i tavolini reclutare discepoli, intruppare, impancarti a tribuno, non c'è posto per falsi maestri. Il caffè ti ridimensiona, passi le ore a riempire i tuoi fogli in mezzo all'indifferenza della gente che ti sta intorno, e che corregge, dice Magris, quel delirio di onnipotenza che è latente nella scrittura, con la quale a volte credi di sistemare il mondo sdottorando sulla vita e sulla morte.
Poi, la Laguna, una delle parti più riuscite di questo libro, luogo di chiarità totali e di silenzi: Magris vagabondo scivola su barche piatte assecondando un viaggiare lento e senza meta che però lascia cogliere in questo regno dell'assoluto soprattutto i dettagli (dettagliata e precisa si fa anche la nomenclatura); un viaggio lento che lascia cogliere i segni della metamorfosi del tutto, un generale naufragio mite, le dune che si disfanno al vento e che l'acqua smangia, il legno delle barche abbandonate che si appoggiano stanche e tranquille su una secca, attendono una consunzione lenta, una vecchia casa che crolla, un monastero dei benedettini quasi scomparso che era anticamente sede di un tempio del dio Beleno e sul quale si è appoggiata poi la minaccia, più dura a lasciarsi consumare, di un bunker tedesco, e la melma, che è come un limo primordiale che tutto impasta e tutto sfa. La laguna è, anche, "quiete, rallentamento, inerzia, pigro e disteso abbandono, silenzio in cui a poco a poco s'imparano a distinguere minime sfumature di rumore, ore che passano senza scopo e senza meta come le nuvole; perciò è vita, non stritolata dalla morsa di dover fare, di aver già fatto e già vissuto - vita a piedi nudi". Come già in altre opere narrative di Magris, in "Microcosmi" le pagine sul mare sono tra le più splendide: il mare di laguna come allegoria di un eden o di istanti felici e luminosi della vita, il mare istriano e le sue estati come vuota chiarità, la magnanima indifferenza del mare e la sua divina assolutezza, l'abbandono disteso che è il mare, "puro presente della vita che basta a se stessa e non si consuma verso mete da raggiungere, nell'ansia di fare (...) ma è felicità senza mete, confidenza vitale che rende le civiltà rivierasche più limpide e gentili". Il mare è centrale nella narrativa di Magris, è di regola scenario simbolico di un'avventura umana. In "Un altro mare" (Garzanti, 1991) c'era il mare istriano, e insieme il mare della letteratura, il mare di Conrad, di Melville e Stevenson, e certamente anche il mare della classicità, quello di Ulisse, eterno fuggiasco per il quale il mare ha riassunto un destino. L'elemento acquoreo ritornava nel "Conde" (il melangolo, 1993), dove l'acqua era l'oblio, l'elemento che distrugge tutto, anche il ricordo; era immobilità, morte, ancora destino, e insieme tomba silenziosa, culla, protezione, o indifferenza, elemento impassibile al pari del protagonista, il Conde. "Il Conde" però era un romanzo tragico, giocato sulla grazia dell'uomo, i suoi slanci vitali e il destino inesorabile che lo travolge. In "Microcosmi" invece predomina la malinconia, struggente, un tono di fondo che lega l'insieme del libro, intriso e temperato però da momenti di grande ilarità. "Microcosmi" è sapientemente giocato più che su un'oscillazione, su un andamento sinuoso tra fulgori del mezzogiorno e l'ombra che si avvicina, tra malinconie profonde e quegli ingredienti di arguzie che dicevo, il sale della vita. Ma il basso continuo, il tema vero del libro, è il passaggio dalla vita alla morte, lo svanire del tutto, le cose che attendono la dissoluzione. Tra i momenti più alti del libro i passi sui pezzi che quelli che restano in terra serbano di chi se n'è andato, passi di una intensità inarrivabile, come quello, di straordinaria levità, sull'ultimo degli amici che resterà, che non farà più fatica ad andarsene perché sarà leggero come una piuma dopo aver sepolto tanti pezzi di se stesso. Il libro ha un andamento fortemente epico, non cede mai, neppure per un attimo, al patetico, al sentimentalismo, all'elegia. Gran parte dei personaggi conservano un che di regale, di tranquillo, di eroico anche nella loro consunzione, nella loro fragilità, nell'attesa della morte, nell'abbandono alla distruzione (come quel maestoso Paolo di Canidole: "Guardando quel vecchio, che aveva sfidato un esercito e non riusciva più a radersi, si capiva che è inevitabile dimenticarsi d'essere stati dèi").
Del passare, dell'incompiutezza, della fugacità, del morire, i vari momenti non fanno che produrre variazioni continuate, sino all'ultimo, enigmatico, allucinato pezzo, "La volta", che intende rappresentare in sogno il passaggio dalla vita alla morte. Il tema del trasmutare, che è insieme immagine o preludio di una eternità, di una compiutezza, di un perdurare, torna mirabilmente nelle pagine sul Nevoso, una foresta prima austriaca, poi italiana, poi jugoslava, indi slovena, che irride quel mutare di nomi e di confini, che non appartiene a nessuno, sono gli altri che le appartengono. Lei muta continuamente ma in sostanza non muta, sono gli altri che passano, in perpetua ricerca dell'Orso, che non si vede mai, salvo le orme, inquietanti e misteriose.
Premio Strega 1997.
"Un uomo si propone il compito di disegnare il mondo. Trascorrendo gli anni, popola uno spazio con immagini di province, di regni, di montagne, di baie, di navi, d'isole, di pesci, di dimore, di strumenti, di astri, di cavalli e di persone. Poco prima di morire, scopre che quel paziente labirinto di linee traccia l'immagine del suo volto"
Jorge Luis Borges
Microcosmi, l'ultimo lavoro di Claudio Magris, fissa l'attenzione su particolari di singole vite, vite di personaggi noti e celebrati, così come di persone "qualunque", e su luoghi che o la natura (la laguna, la collina...) o gli uomini (il Caffè) o le vicende della storia hanno caricato di significato.
Elemento che attraversa queste pagine è il rapporto col paesaggio, Trieste, il Friuli, l'Adriatico, e il tempo che passa lasciando le sue tracce.
L'attenzione per il particolare che sembra caratterizzare quest'opera di Magris, significa anche uno sguardo attento alla cavità di un albero, al colore del bosco e del mare, ai corrugamenti della montagna "come pieghe su un viso scavato". Rughe, solchi, tracce, lasciate dal tempo nella natura, ma anche appunto sui volti, negli occhi degli uomini e nelle loro coscienze.
Il ripercorrere il passato di un uomo, non è semplice memoria, è sentire ciò che è stato, ben presente, disegnato sui volti e nella voce di ciascuno, "perché i mutamenti, anche quelli del mare e della terra, sono visibili e si consumano sotto gli occhi".
Altro tema che attraversa il libro è quello della "frontiera". Frontiere reali e fittizie, che gli uomini, come in un gioco, nel corso della storia, hanno spostato, annullato, inventato; popoli che via via si sono trovati ad essere italiani, austriaci, jugoslavi, croati, sloveni. Senza ironia, quasi con paterna pietà, per questa infantile, ma tragica volontà di definire identità sempre negate, Magris mostra una folla di personaggi, dalle storie diverse, attori di un piccolo palcoscenico di provincia o protagonisti di eventi che si potrebbero definire "storici", tutti ugualmente parte di un'area, di un bacino culturale, figli di una terra languida e aspra, nelle sue diverse espressioni, così come quel dialetto o, se si vuole, quella lingua.
Figure di poeti, di scrittori, più o meno illustri, popolano questo "microcosmo": l'amore per la parola, parola come forma di ordine mentale, quasi cosmico, come strumento di definizione del reale e del mistero della vita e dell'anima.
Infine un narratore che guida attraverso questa storia/geografia dell'anima, talvolta rivelato, altre sottinteso.
Eppure questa presenza nascosta dà coerenza alle pagine dedicate a Torino, luogo che avrebbe potuto essere quello di "un'Italia civile ed emancipata, soprattutto grazie al proletariato industriale e a una classe liberale aperta al progresso", per riprendere la citazione di Gobetti riportata nel volume.
Malinconia di quello che avrebbe potuto essere e non è stato, ma anche sofferta accettazione del presente: una chiave di lettura che il narratore/guida dà al lettore.
Così come "è inevitabile dimenticarsi d'essere stati dèi", e il tempo rende giustizia (o ingiustizia) alla gloria terrena, però è possibile trarre il senso e il giudizio sugli uomini e sulla storia da questa frase, riferita alla timida moglie dell'"eroe di Canidole": "Ma forse la corona più vera posava, nascosta, sul capo della donna senza nome e senza storia, perché il peso che lei aveva portato era più duro della caccia di un esercito e la gentilezza che il suo volto aveva saputo conservare era una regalità ancora più alta di quella di Paolo, l'eroe di Canidole".
A cura di Wuz.it
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