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Il correttore - George Steiner - copertina
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correttore

Descrizione


"Se trionfa la California, non serviranno più i correttori di bozze. Le macchine se la caveranno meglio. Oppure tutti i testi diventeranno audiovisivi, con programmi autocorrettori incorporati. Notte dopo notte, Carlo, lavoro finché mi duole il cervello. Per arrivare all'esattezza perfetta. Per correggere il più infimo refuso in un testo che forse nessuno leggerà mai o che verrà mandato al macero il giorno dopo. L'esattezza. Il rispetto di se stesso. Gran Dio, Carlo, devi capire quello che cerco di dire. L'Utopia significa semplicemente l'esattezza! Il comunismo significa togliere gli errata dalla storia. Dall'uomo. Correggere bozze."
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Dettagli

1999
Tascabile
12 novembre 1999
100 p., Brossura
9788811669425

Voce della critica


recensione di Ranchetti, M., L'Indice 1993, n. 3
(recensione pubblicata per l'edizione del 1992)

È un libro breve, di andamento narrativo. La storia è semplice, alcuni episodi successivi nella vita difficile di un piccolo gruppo di intellettuali politici nell'ambito della crisi di un movimento o di un partito che cerca di reagire e di sopravvivere, se è possibile, ad un presente sempre più stravolto. Il protagonista è un correttore di bozze, e il titolo originario, intraducibile "Proofs", giocava sulla genericità dell'oggetto, le "prove" di un testo, forse la storia, che si deve correggere. È, tuttavia, un testo "esemplare", come "esemplare" è il racconto, sul modello di Cervantes, e pertanto il lettore cerca di non cedere all'apparente semplicità della narrazione, per trovare modelli e significati, allusioni e confronti, tende, forse non sempre a ragione, a contrapporsi ad una vicenda che non è necessariamente sua, così come non sono immediatamente riconducibili a personaggi storici, appena camuffati dalla finzione letteraria, i personaggi principali. In particolare il correttore minacciato di cecità che l'autore ha voluto identificare in Sebastiano Timpanaro che davvero, con questa storia, non ha nulla che fare.
L'adozione del modulo narrativo è intelligente, così come è innegabilmente intelligente la scelta dei personaggi, e lo stesso tracciato della vicenda. E forse il suo "uso" corretto, il solo legittimo, è di seguire il racconto per quella che è, una novella esemplare del nostro tempo. Ma si ha una qualche resistenza ad accertare la riduzione narrativa, e a limitarsi a sorridere di qualche coincidenza con la storia individuale. È, direi, almeno per me, quasi impossibile non riconoscere nel breve testo di Steiner, in qualche modo, sia un apologo, sia una provocazione. Naturalmente, per così dire, ad alto livello, che non cede, o solo raramente, agli schemi della fine di una cultura, delle cadute del consenso storico quando sono venuti meno i parametri interpretativi, e così via. La provocazione, secondo me, sta forse solo nel proposito di gettare il sasso e ritirare la mano o almeno di suggerire, senza giustificare o proporre una diversa intelligenza dei fatti narrativi, del resto - e questo è davvero un'invenzione significativa - troppo semplici per non essere interpretati. Questo libretto, quindi, che non è certamente un libro a chiave, che vuole semplicemente descrivere un itinerario, provoca appunto interpretazioni diverse, molte delle quali legittime tanto più che il testo può benissimo arrivare alla fine senza conoscerle, in ogni caso trascurandole. Per me, al di là della lettura più immediatamente politica che, penso, risulterà quasi irritante da parte di chi ha vissuto una storia simile senza poterla "correggere", è soprattutto visibile un'intelligenza dei fatti narrati nella filigrana della loro apparente semplicità, di carattere religioso, nel senso dell'uso, consapevole, di un modello religioso o meglio di storia religiosa, che si fa sentire solo mediante l'adozione di certi termini propri del linguaggio religioso. Non credo che sia l'interpretazione giusta, e neppure la sola possibile. Senz'altro ad essa se ne possono affiancare altre, ma è la sola che a me permette di ricavare un senso dalle letture di questo testo che può corrispondere ad un'intenzione. Forse camuffata ma, secondo me, certamente presente. Carlo Michelstaedter inviando "La persuasione e la rettorica" all'Istituto di studi superiori di Firenze scriveva, nella lettera di accompagnamento agli uffici, che le cose che lui veniva dicendo le avevano già dette prima di lui Gesù Cristo e i filosofi - ordinando in una serie non gerarchica i grandi pensatori che l'avevano preceduto in una via di riflessione così emozionata e tragica -, ma che, quanto a lui ..." nel migliore dei casi avrà fatto... una tesi di laurea". Era certamente vero, anche se Michelstaedter si uccise pochi giorni dopo. L'ambizione di Steiner è certamente minore, senza ironia, ma, lasciandolo alle sue parole, non si potrà del tutto credergli se sosterrà di aver scritto un racconto.
"Nelle arti dello scrupolo non aveva rivali" (p. 91). È la prima nota di un altro ambito, per così dire disciplinare del racconto: una diversa appartenenza. Sappiamo, se il nostro orecchio è attento, che entriamo in una moralità.
La seconda nota l'incontriamo già nella pagina seguente: "Leggendaria come ogni perfezione". Sappiamo allora che il nuovo, o il diverso ambito, è quello dell'etica, e possiamo già prevedere che si tratterà, con ogni probabilità, di un'etica non religiosa.
La terza nota è quasi un corollario della seconda, e pertanto rafforza l'impressione del genere, non vi aggiunge nulla e la si trova nella pagina seguente: "Ogni "erratum" è una menzogna definitiva" (p. 11).
Il capitolo II, di andamento più decisamente narrativo, anche se non mancano gli incisi "moralistici", rivela che il primo capitolo riveste la funzione di prologo, a cui si riconnette, forse, il carattere "utopico", nel senso letterale, della narrazione. Non sappiamo quando e dove, ma mentre precipita la certezza raggiunta dopo qualche allusione non ambigua per l'allusione successiva, ci sentiamo autorizzati a riconoscere tempi e luoghi per la crescita di circostanze storiche e geografiche sempre più familiari. Come di chi, venendo da lontano e non sapendo la strada percorsa perché condotto da altri, e forse bendato o semplicemente. addormentato, scopre segni sempre più incontrovertibili di luoghi a lui familiari, quasi un paesaggio di casa. Direi che qui, forse a causa della lingua italiana così disponibile alla poeticità, vi è qualche bravura eccessiva. Ad esempio a p. 17 del capitolo III, il brano: "Rimaneva in lui il silenzio brusco delle rotative e il ronzio della retorica sciorinata da voci cittadine cariche di tabacco e insonnia". Bisognerebbe vedere il testo originale che mi immagino meno indulgente. Così, anche qualche "sberleffo" alla retorica di un "allora", che si incomincia a rilevare come un preciso ambito della narrazione (come, ad esempio a p.18 l'espressione "massonerie della speranza" e, ahimè, lo spettro delI"'ironia amara" che comincia a circolare in queste prime pagine.
Stalin e Togliatti e prima ancora Gramsci e l'Unione Sovietica, poi Bologna, non lasciano più dubbi sulle diverse identità che qui si vogliono rievocare, anzi: evocare. E basterebbe a confermarle, oltre ai nomi che potrebbero essere anche fittizi, l'apparente disordine delle enumerazioni degli argomenti trattati nelle riunioni; nell'ironia, del resto consueta, del confronto creativo fra temi differenti per importanza e destino.
Visto il tono, tutto sommato letterario ed evocativo, si fa una certa fatica a distinguere tra i temi veri e la necessità retorica di altri argomenti nell'amplificazione necessaria all'effetto previsto. Questo va a scapito di una certa necessità e rigore dell'esposizione e degli stessi problemi richiamati. Così quando la memoria impone il riconoscere negli episodi narrativi la vicenda del "manifesto" (e proprio la "ruse" del nome diverso per l'unica donna lo richiede) si resta delusi e impacciati perché non si vuole cedere all'evidenza e soprattutto alla volontà di confrontare la propria memoria dei fatti con il resoconto qui offerto. La differenza fra la memoria storica e questo racconto è acuita dalla presenza in queste righe di espressioni davvero estranee alle persone evocate. Non solo estranee ma improbabili e quasi ingiuriose, per essi, se espongono alleanze di momenti storici diversi e soprattutto interpretazioni che si avvalgono del gergo religioso e della tradizionale banalità di avvicinare movimenti religiosi ereticali a movimenti politici ereticali, quasi a riconoscere sempre lo stesso meccanismo dell'assenso maggioritario entro il dissenso minoritario, e, davvero, via dicendo. Qui, a p. 21, dispiace trovare applicata la stessa formula: "Sapendo che veniva pronunciata la cancellazione del suo nome dalla pergamena dei salvati, degli eletti alla speranza e al significato". Certo l'intelligenza di Steiner gli consente, o gli suggerisce, quell'aggiunta "al significato" dopo l'allusione alla speranza - relativamente tradizionale. Ma è, direi, una stecca ben più di un "coup de théatre". Il passaggio alla nuova verità che ripete il modello ma pretende di non avvedersene, almeno per un certo tempo, è più che previsto.
L'allegoria "religiosa" viene riecheggiata nella chiusa del capitolo III: "Durante il suo lungo soggiorno nel ventre della balena" (p. 21). Poco oltre, l"'Omelia" a designare la rassegna stampa ragionata affidata al correttore. Il correttore di bozze non interviene nel merito del testo, si limita a correggere gli errori di stampa, i refusi, può forse cambiare le virgolette, ma non può certo permettersi una correzione di contenuti. Rimane, per definizione, estraneo, al valore del testo, e al giudizio su di esso. Questa figura permette a Steiner di porsi nei confronti della narrazione nello stesso ambito; e, soprattutto, gli conferisce un carattere di testimone il cui compito, analogo a quello del correttore, è limitato per definizione. In questo caso poi - e questa intuizione è dovuta all'intelligenza critica di Steiner - questo Correttore non può disporre di un testo a fronte, di un originale, da confrontare con il suo testo, neppure di titoli correnti di riferimento.
(A meno che si tratti di stereotipi che infiorano anche questa narrazione: "topoi" che non saprei a che cosa ricondurre, a quale testo, a quali "loci" teologici, sociologici o politici, neppure a quale letteratura sull'argomento).
Ma, se di letteratura si tratta, essa è piuttosto scadente, come se a questa tipologia di ragionamento potesse corrispondere solo una certa letteratura "minore". Questo è più che evidente negli spazi narrativi non immediatamente riconducibili all'esposizione dottrinale. Quando, ad esempio il protagonista (che era stato caricato di tanti significati) "percepi[sce] la vicinanza della sua guancia, il bagliore di brace dei suoi capelli. Bella, si disse, non era. Ma molto più che bella". Mio Dio! (p. 34). A quando le nozze benedette?
In realtà il problema è quello di confrontarsi con la storia recente, nella certezza di non poter utilizzare le categorie che erano valse a tracciare un itinerario conoscitivo e una conseguente decisione ad operare. Per questo si sceglie (Steiner sceglie) di ricorrere a un apologo, alla costruzione di personaggi che generano una scena, che provocano una vicenda percorribile e visibile; e per questo era necessario individuare una voce recitante, un protagonista in qualche modo estraneo alla rappresentazione, ovvero partecipe in modo particolare: il correttore di bozze, appunto. Ma tutto questo ha un prezzo. Da una parte la scelta consapevole di non identificarsi con il personaggio (o i personaggi) non provoca alcuna identificazione nel lettore; dall'altra il carattere "verosimile" della narrazione e la "recitazione" del vero impediscono sul nascere qualsiasi giudizio di verità.
Ed è dunque con un certo disagio che ci si lascia condurre dalla narrazione così "ragionata" al riconoscimento inevitabile delle figure, dei tempi reali mentre, con una certa apprensione, si prevede che incontreremo, oltre ai nomi storici ormai disponibili a qualsiasi uso, i nomi viventi di nostri amici, perché sappiamo che l'uso del genere letterario assolve (cap. IV) l'autore da una responsabilità diretta, storica, iscrivendolo in una neutralità apparente e inviolabile che non può essere contraddetta da alcuna evidenza. In realtà si comincia a pensare che questa ironia non sia autorizzata e che sia da contrapporre ad essa una rozza intransigenza. Anche perché da questa ironia, da questa orrenda bravura si può trascorrere solo nella tolleranza, non nella comprensione o nel giudizio.
Naturalmente, però, Steiner è consapevole del limite del "genere" adottato - e dei personaggi. E allora fa trapelare richiamando in una diversa gravità gli accenni moralistici già apparsi fra le righe narrative e che allora sembravano quasi stonati - una controstoria. La introduce anche questa per accenni, anzi per assonanze, soprattutto con la storia cristiana nelle sue fasi acute; il Golgota, ad esempio a p. 44, e col carattere immediatamente predicatorio delle parole di un personaggio al Padre Carlo di cui non è detto chiaramente se spretato o no - anche questa un'astuzia abile ma forse non necessaria. Ma l'artificio non regge se subito il testo ricade nella consueta - e storica - comparazione fra socialismo e cristianesimo: "Sai che cos'è il socialismo, Reverendo?.... È impazienza... Ecco che cos'è il socialismo. Una forma dell'adesso" dice il correttore. E naturalmente il Padre Carlo non può non ribadire che "così era nel primo cristianesimo" (p. 46). Come se solo il confronto con il cristianesimo primitivo potesse condurre a una certa comprensione del comportamento di questi dissidenti, come se il meccanismo per cui dalla purezza originaria si perviene "necessariamente" alla corruzione nel passaggio parallelo dalla libertà anarchica all'istituzione oppressiva, fosse l'unica spiegazione possibile della storia e non piuttosto il segno di una deficienza categoriale e inventiva, o la metafora del nesso fra inconscio e conscio.
L'impazienza caratterizzerebbe i primi cristiani e i socialisti. E la giustizia? E la verità? E la fine del mondo nelle lettere ai Tessalonicesi - sull'avvento del Regno rinviato al presente di un'attesa metastorica? Ecco di nuovo profezia e promessa come categorie del pensiero di Marx e, si sospetta, più vere e fondamentali di duella "economicistica", e dunque il solito ricondurre Marx alle sue origini ebraiche - e al "tradizionale" rovesciamento dell'Elezione - che, si potrebbe dire, colpisce i disgraziati, i perdenti ecc., la serie rovesciata dello gerarchie. È naturalmente una diversa estensione (o idea) del messianismo. Sono, in un certo senso, prove che non presuppongono un disegno preciso. Diversamente dalle tesi sul significato della storia di Walter Benjamin, che tuttavia in qualche modo appaiono presenti. Qui tuttavia prevale, o meglio finisce per prevalere, rispetto a un progetto conoscitivo, la struttura di un ricatto fra due meccanismi (quello religioso, ebraico cristiano e quello marxista) che si imputano a vicenda nell'imminenza della fine e ormai nella certezza di nessun avvento, di non essere riusciti a nulla. L'America, tuttavia.... dice Carlo, ed è curioso che sia il religioso a proporre come modello il non religioso, ripetendo quindi, inconsciamente, il presupposto che vi è una sola religione vera, quella cristiana e che il suo contrario non è la religione marxista ma la non religione. Anche la difesa della differenza è tradizionale: da una parte la Verità, dall'altra la giustizia costruita senza alcuna premessa negativa sulla base dell'uomo non pregiudicato dal peccato originale - e dalla corrispettiva salvezza finale. Da una parte la speranza, dall'altra una strana virtù: la perspicacia. Ma i due controversisti finiscono per scambiarsi le parti nel corso del dibattito perché devono riconoscere la comune appartenenza, mentre l'America non ha "valori", non ha, si potrebbe dire, resurrezione.
Ma la disputa si conclude, almeno temporaneamente, con la ripresa di un carattere dell'intuizione originaria della figura del correttore di bozze (proofs, prove, e qui la parola inglese manca e la parola corrispondente italiana è insufficiente). Il comunismo significa togliere gli errata della storia: ma l'intuizione, proprio nel suo momento più alto di intervento si rivela, anch'essa, come la parola italiana, insufficiente. La correzione di un testo presuppone un testo, cioè un disegno originale. Oppure senza un testo originale (ricordiamoci le religioni del testo) si rimane senza lavoro. E quasi a corrispondere a questa diagnosi, interviene il capitolo successivo: la visita medica e la diagnosi di malattia grave agli occhi, e la previsione di un abbandono necessario della professione - già minacciata dal ragionamento. La teoria si riconosce vera nella realtà: il personaggio può continuare la sua storia privata che, adesso sappiamo, è una storia vera.
Il capitoletto che segue è una sorta di glossa. Il protagonista è in malattia ma deve, in qualche modo ribadire la sua verità: tutto dipende da un errore di trascrizione, dice la cabala: da quell'"erratum" deriva ogni errore successivo. E questo viene detto ad un nuovo correttore, senza scrupoli, che lo chiama "rabbino".
Ma prima, a p. 75, la bravura di Steiner si è lacerata per poche righe in cui il protagonista non è più il correttore di bozze, ma lo stesso autore che interviene in prima persona, a introdurre quello che, secondo me, è il vero tema del libro di cui tutto il resto è solo una variante di copertura. È la rottura per così dire di un contesto, non solo narrativo, ma storico-politico, l'incursione in un regno che, per mantenere il linguaggio religioso, si potrebbe definire della bestemmia: "Giocava con le sillabe lapidarie, sostituendo vocali, invertendo le lettere con effetti oscuri degni di un cesso di adolescente". Dà a una coppia di passaggio che gli chiede come andare al Museo della Resistenza, "subito, con grande loquacità, indicazioni fuorvianti. Capì, mentre si accomiatavano con gratitudine, che erano ebrei, molto probabilmente israeliani venuti a onorare la memoria del passato. Un disgusto paralizzante lo invase. Verso se stesso, ma anche verso gli innocenti. Come se fosse davvero l'inflessibile cordoglio degli ebrei, la loro incapacità di lasciar perdere, ad aver portato il mondo politico e ideologico al caos attuale".
Il racconto riprende senza apparente distacco, ma la grande maledizione è stata lanciata. Vedremo se agirà. La decisione di sciogliere il gruppo (ma la verità non si può dissolvere), la previsione dell'avvento di un fascismo nella sua forma più cinica, l'ipotesi realistica di una prossima clandestinità, la citazione finale di un altro "erratum" (il pugno alzato in segno di commiato) la ripresa del gesto nel "giusto" segno di promessa e di terrore, mi sembrano appartenere solo alla vicenda narrativa che deve rispettare il proprio svolgersi, previsto sin dall'inizio.
Un viaggio a Roma, ormai solo intravista nella realtà e rivista nel ricordo introduce il tema della memoria. Una lapide deturpata da ignoti probabilmente neofascisti o monarchici (?) consente di ricordare la pratica del rito ebraico del "kaddish": "il rifiuto di dimenticare, di permettere alla mente di avere l'ultima parola in vite che dovevano continuare a vivere" (p. 71). L'evidenza della violazione introduce la violenza del giudizio su un'altra "attuale" violazione della memoria, e, più, della storia: "il mutamento del nome del Partito, uno sputare sui morti; il Partito (lo stesso Partito) che piscia sulla storia" (p 92). Ma anche questa violenza si dissolve nella brevissima storia che ne deriva: l'incontro, la confidenza, la congiunzione dei corpi e degli astri nel pronostico realizzato privato e politico (il ritorno del Partito Comunista alla fama e al potere), il ridivenire estranei.
La conclusione è coerente: l'iscrizione al Partito Comunista impossibile perché il Partito non c'è più, diventa l'iscrizione al Partito Democratico della Sinistra che forse sarà fondato. È ancora presto per dirlo. Ma non è presto per riconoscere i germogli della vecchia fede.

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George Steiner

1929, Neuilly-sur-Seine

Saggista e scrittore francese. Steiner è stato figura di primo piano nella cultura internazionale. Fellow del Churchill College a Cambridge, è stato docente in numerose università tra cui Princeton, Stanford, Chicago, Oxford e Ginevra. Tra i più influenti critici letterari del Novecento, era nato in Francia, a Neuilly-sur-Seine nel 1929, da una famiglia di ebrei viennesi. Per sfuggire al nazismo lasciò l’Europa insieme alla famiglia per gli Stati Uniti nel 1940, diventando cittadino americano. Nella sua lunghissima carriera di accademico e critico letterario, ha pubblicato numerosi saggi su varie tematiche, ha scritto per giornali internazionali e per decenni è stato il critico di punta del New Yorker.Tra i suoi libri ricordiamo Tolstoj...

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