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STEINER, GEORGE, Vere presenze, Garzanti, 1992
BLOOM, HAROLD, Rovinare le sacre verità. Poesia e fede dalla Bibbia a oggi, Garzanti, 1992
recensione di Boitani, P., L'Indice 1992, n. 9
(recensione pubblicata per l'edizione del 1992)
Harold Bloom e George Steiner, due fra i maggiori critici letterari oggi viventi nel mondo anglosassone, non hanno nulla in comune tranne la lingua, l'intelligenza e la capacità di affrontare con generoso entusiasmo i temi più vasti della cultura e della letteratura occidentali. Dobbiamo molto ad ambedue. A Bloom, americano e profeta freudiano del sublime, siamo debitori di tre concetti chiave legati fra di loro ed imperniati sull'idea della letteratura "forte" come perpetua "lotta" (dello scrittore-figlio contro il padre, del poeta nella battaglia per la sublimità): quello dell"'angoscia dell'influenza", quello della "dislettura", e quello dell"'agone". Steiner, "europeo" e grande eretico dell'accademia letteraria inglese, ha preferito altri terreni, sempre precorso i tempi con la scelta di problemi che sarebbero poi divenuti scottanti: da "Tolstoj o Dostoevskij" a "La morte della tragedia", da "Linguaggio e silenzio" a "Dopo Babele", dal "Castello di Barbablù" a "Le Antigoni", la sua visione tragica, talvolta apocalittica, della letteratura, della lingua e del mondo ha mirabilmente disturbato la cultura ufficiale impedendole di adagiarsi completamente nel soddisfatto quietismo accademico.
Quel che separa Bloom e Steiner è dunque l'abisso che si spalanca fra il sublime e il tragico. Quel che li accomuna è, per ciò stesso, l'acuta percezione delle tensioni che scuotono il testo poetico e la sua relazione con il lettore. Tale percezione è al centro dei due libri che, a un mese di distanza l'uno dall'altro, ci vengono adesso proposti in italiano, e che hanno più di un punto in comune. Nel suo Bloom tratta di "sacre verità", di poesia e fede (l'originale recita "belief"', il credere) nella tradizione occidentale. Steiner si accosta alle "vere presenze", al metafisico e al divino che stanno dietro all'opera d'arte e propone che l'incontro del lettore con essa avvenga in una sorta di comunione eucaristica.
Per cogliere l'immagine della letteratura che emerge da questi due volumi, potremmo tentare di leggerli in sequenza. Steiner stabilirebbe allora l'approccio al testo puntando al nodo centrale dell'ispirazione e della ricezione e partendo quindi da quell'atto primario dell'azione artistica che è "contro-reazione", imitazione invidiosa (Bloom direbbe "ansiosa" o "angosciata", e comunque agonistica) della Creazione. Bloom ci fornirebbe poi la serie diacronica, il canone dei testi che si presentano come "rovine" delle sacre verità nella letteratura occidentale, iniziando proprio dal resoconto della Creazione nello scrittore jahvista (J) di Genesi e terminando con Kafka (K) e Samuel Beckett (e cioè passando attraverso quelle fasi che Steiner chiama del Logos, del "dopo la Parola" e dell"'epilogo"). L'immagine d'insieme è grandemente suggestiva, ma compito del recensore (se Steiner ce lo consente) è di badare ai principi ispiratori e ai particolari.
Iniziamo allora con "Vere presenze". Il libro è strutturato in tre parti, le prime due furiosamente distruttive e la terza accoratamente costruttiva. La prima sezione, "Una città secondaria", muove un attacco frontale alla cultura parassitica del commento dell'interpretazione critica, del saggio minimo, della recensione, della chiacchiera accademica, insomma del discorso "secondario" che oggi si moltiplica come un'escrescenza vuota e maligna fino a soffocare quello "primario", cioè il testo artistico. Il fenomeno è dovuto, secondo Steiner, ad una ragione psicologica di fondo (l'uomo vuole evitare il confronto doloroso con le vere presenze e si rifugia perciò nelle parole di seconda mano), e a concomitanti motivi social-culturali: l'imperio del giornalismo, l'americanizzarsi dei modelli educativi (gli Stati Uniti cercano la democrazia e l'egalitarismo, nemici del canone e dell'eccellenza), la professionalizzazione della "ricerca" accademica, e il tentativo di imitare il modello delle scienze esatte da parte delle discipline umanistiche. Il commento senza fine, che in passato ha trovato le sue massime espressioni nel midrash ebraico e nella scolastica medievale, è ora appannaggio della psicoanalisi, una pseudo-scienza che gira a vuoto senza nulla risolvere. La migliore lettura dell'arte è l'arte (scrittori che parlano di scrittori). Nella Repubblica del primario sono ammessi soltanto gli autori, i fruitori e i filologi puri: in casi eccezionali, i traduttori.
Nella seconda sezione del libro, "Il patto infranto", Steiner attacca la "teoria" estetica. Ogni teoria, da Aristotele in poi, non è che la descrizione a posteriori di una serie di oggetti, la modellizzazione di esperienze affatto personali che non potrà mai attingere la verificabilità scientifica (nulla nelle arti essendo quantificabile in termini matematici). Le pur importanti scienze moderne del linguaggio, le grammatiche trasformazionali e generative, lo strutturalismo, la semiotica, la psicoanalisi, il decostruzionismo non hanno alcun valore scientifico, perché ognuna di tali teorie si esprime tramite la lingua, e in epoca moderna (con Mallarmé e Rimbaud) il "patto" fra logos e oggetto, e fra il soggetto e se stesso, si è rotto definitivamente. Noi viviamo nell'era "dopo la Parola", pericolosamente vicini - soprattutto quando sprofondiamo nell'assenza e nella vacuità del decostruzionismo - all"'epi-logo".
Avendo fatto tabula rasa della critica e della teoria, nella terza sezione di "Vere presenze" Steiner ci propone una via di accostamento al testo. L'opera d'arte è come un ospite che ci giunge non invitato: nei suoi confronti dobbiamo, guidati dall"'etica del senso comune", comportarci con cortesia e tatto, con quell'amore della parola (lessicale, sintattico-grammaticale, retorico e semantico) che è vera "filo-logia". Lo spazio filologico è quello dell"'attesa", nel quale comprendiamo la "radice di segretezza" che sta al cuore dell'opera. Lo studio del contesto ci permetterà di percepire il testo attraverso la storia, l'attenzione ai fenomeni sociologici e agli elementi biografici ci avvicinerà all"'incontro" decisivo. Imbarazzati e riluttanti, eccoci dunque dinanzi alla poesia, alla pittura, alla musica, davanti ad una "alterità" irriducibile. Avremo, dapprima, un moto di riconoscimento percependo delle "tracce di fondo" che sono il segno della nascita della nostra stessa col scienza: quindi l'esperienza ci farà barcollare, mentre comprenderemo che la creazione estetica è ripetizione invidiosa della Creazione e che a monte di essa sta una fonte trascendente di alterità: Dio. Incontrare davvero l'opera d'arte comporta una scommessa rischiosissima sul significato, una scommessa metafisica e teologica. Con "gravità" e "costanza" attenderemo allora l'epifania.
A questo punto, entrerà in scena Bloom, per il quale "la poesia e la fede vagano, a volte unite, a volte separate, in un vuoto cosmologico delimitato da verità e significato", fra di essi, "da qualche parte", sommandosi "innumerevoli descrizioni di Dio". Nelle guerre di successione che caratterizzano la storia letteraria scompare ogni differenza fra letteratura sacra e letteratura profana "alta" o "forte". Ogni poesia forte, infatti, "deve rovinare le sacre verità e ridurle a favole e vecchie canzoni" (la formulazione risale ai versi con cui Marvell definisce il "Paradiso perduto" di Milton), "perché la condizione essenziale della forza poetica è precisamente che la nuova canzone, il canto proprio, sia sempre un canto di se stesso", ogni sacra verità che non appartenga in proprio al poeta divenendo perciò "una favola, una vecchia canzone che richiede una revisione correttrice".
In principio, dunque, era J il fantomatico autore jahvista di alcuni brani di Genesi ed Esodo (nel Libro di J Bloom sostiene trattarsi in realtà di un'aratrice, una dama della corte di Roboamo, figlio di Salomone). J è padre-madre della sublimità ironica, perturbante: non ci mostra lo Spirito vagante sulle acque, nŠ il "fiat lux", ma preferisce farci vedere Jaheh a passeggio per il Giardino nella frescura della sera, oppure a picnic sulla montagna con gli anziani di Israele, o infine mentre tenta di uccidere Mosè. Tanto sconvolgente è loJahveh di J che gli altri redattori del Pentateuco (il Sacerdotale, l'Elohista ecc.) hanno cercato di sopprimerne o rimuoverne il testo. J resiste però ad ogni riduzione, e la sua lezione di sublimità viene ripresa in Geremia (dove Jahveh seduce e violenta il profeta), Giobbe e Giona. A tutti gli effetti, J diventa così la sconcertante "autorità" suprema che ci contiene e determina.
Su un'altra sponda del Mediterraneo, poco più tardi, viene creato Omero, l'autore fittizio dell'"Iliade". Mentre il Giacobbe di J assomiglia a Jahveh, lo Zeus di Omero è antropomorfico; mentre Jahveh si comporta da personaggio umano, Achille è per metà bambino e per metà dio. Eroe supremo del pathos, egli è in realtà una "forza", un "impulso". Se Giacobbe è come noi, Achille è radicalmente diverso: il primo lotta con Jahveh, sopravvive, riceve la benedizione e un nome nuovo, stabilisce un patto con Dio; il secondo "si sforza sempre disperatamente di vincere la battaglia dell'esistenza" e rifiuta di "attenersi a qualsiasi patto, tranne che con la morte". Achille è l"'eroe poetico" per definizione, e l'"Iliade", essenza della poesia e dell'incredulità, ha "sovradeterminato la natura di tutta la poesia occidentale" presentando la vittoria come bene supremo e inattingibile.
Segue Virgilio, figlio e vittima di Omero. Cosa poteva fare costui, disarmato com'era nel campo dell'agon, per rivedere e correggere il padre? Certo non sostituire Achille con Enea, e Zeus con Venere. Infatti, il "capolavoro personale di Virgilio" sta nella creazione del mondo di Giunone, la possente, oscura madre del poema, colei che distrugge gli eroi più amati dal poeta, Turno e Didone. Nell'"Eneide" non c'è "fede" perchè Virgilio si estrania dalla verità e dal significato mentre i suoi dei assomigliano pericolosamente agli angeli caduti di Milton. Virgilio viene "transunto" da Dante, che fa di lui un personaggio, ma significativamente lo ricaccia nel Limbo una volta che, raggiunta la cima del Purgatorio, egli si ricongiunge con l'amata Beatrice, cioè con la musa più propriamente sua. La "Divina Commedia", in cui poetica e politica sono perfettamente fuse, e forma poetica e significanza teologica sono "inseparabili e pragmaticamente unite" (mentre "non ci può essere fusione tra fede e poetica") "non è un'allegoria dei teologi, ma un tropo immenso del pathos o della potenza, la potenza di quel singolo individuo che era Dante": in cammino verso una gnosi puramente personale; alla ricerca, nella creazione di un mito tutto suo, di una voce esclusivamente profetica.
Lasciato Dante, Bloom entra nella tradizione inglese. Ecco Chaucer, che per primo possiede "la capacità di rappresentare la trasformazione mosrando l'individuo (ad esempio il Venditore di Indulgenze e la Comare di Bath) che medita sui propri discorsi e viene modificato da questa stessa meditazione". Gli succede, da lui imparando, Shakespeare, lo scopritore di Amleto, Iago, Lear, Edmondo e Falstaff - di personaggi che, determinandoci e contenendoci, creano se stessi e si contemplano come opere d'arte nel mistero della conoscenza, nella negazione totale, nella sofferenza da Giobbe, nella sete di vita ad ogni costo. Chi può venire dopo Iago se non il Satana dualista di Milton il monista, quel Milton-Lucifero che vuole rovinare le sacre verità trasformando la Bibbia stessa in favola? E chi sarà il Figlio di Milton se non William Blake, che compone sul Padre un intero poema? Chi, infine, supererà Milton una volta per tutte se non Wordsworth, la "mente teomorfica" che scrive un poema su se stesso, il "Preludio"?
Wordsworth è per Bloom il poeta moderno per eccellenza, e poiché in "Rovinare le sacre verità" egli non entra nel campo del sublime americano che ha esplorato altrove, dopo Wordsworth è inevitabile che muova a gran passi verso il "Padre Nostro", Freud. Freud, che è vicino a Geremia nel pensare che "il corpo, in maniera irrequieta, appartiene all'io, e non al mondo esteriore", effettua, nel suo "L'uomo Mosè e la religione monoteistica", "una revisione dello jahvista così completa da farlo scomparire, e dichiara che Mosè era egiziano, trasformando così lo jahvismo in un'invenzione egiziana". Il dualismo, la "negazione", l'ambivalenza la passione per l'interpretazione di Freud penetrano per forza "tutto il pensiero ebraico moderno, anzi tutto il pensiero moderno": in altre parole, ci determinano. A Freud puà apparentarsi soltanto K, Franz Kafka, la "cornacchia" (tale il significato di Kafka in ceco) che considera compito primario quello di "realizzare il Negativo" e che vuole ad ogni costo evadere l'interpretazione -Kafka colui che ne "Le preoccupazioni di un capofamiglia" mette in scena la fabbricazione di Odradek deliberatamente parodiando la versione jahvista della creazione di Adamo: Kafka, che non si fida del patto stipulato tra Jahveh e Israele, ma soltanto di quello che fa di lui uno scrittore. Oltre Kakfa è andato solamente Samuel Beckett. Il cacciatore Gracchus di Kafka riassume l'orrore della sua condizione nella frase, "Il pensiero di volermi aiutare è una malattia, e deve essere curata a letto". Il Murphy di Beckett, scrive Bloom concludendo il suo libro, "avrebbe potuto dirlo; Malone è al di là di una dichiarazione così semplicemente espressionistica. Quell"al di là' è il luogo di residenza delle ultime opere narrative e teatrali di Beckett. Chiamiamolo silenzio o abisso o realtà al di là del principio del piacere, oppure realtà metafisica o spirituale della nostra esistenza finalmente messa a nodo, al di là di ogni nuova illusione. Beckett non vuole nominarlo, ma si è impadronito dell'arte di rappresentarlo con più forza di qualsiasi altro scrittore"
Come si vede, si tratta di due libri che vogliono dar fondo a tutto l'universo poetico. E non vi è dubbio che in parte vi riescano, ricordandoci in modo provocatorio e salutare alcune cose che tendiamo a dimenticare: che si deve diffidare del secondario senza fine e della teoria totalitaria; che accostarsi all'opera d'arte non è impresa da pigliare a gabbo, ma comporta in ultima analisi un rischio personale perché essa preannuncia una presenza e propone una verità forte; e che tale verità si presenta, attraverso i millenni, come favola e canzone.
Si tratta perà di due libri che, pur offrendo intuizioni brillanti e pagine densissime (penso alle ultime di Steiner, o a quelle di Bloom su Falstaff, su Milton e su Kafka), commettono errori singolari (grandi perché grandi sono gli autori) di misura, tatto, omissione e sostanza. Il volume di Steiner poteva essere ridotto ad un saggio di trenta pagine, fulminante come quelli che egli sa ben scrivere. Quello di Bloom era in effetti già contenuto in un saggio apparso alcuni anni fa ("Da J a K", appunto), nonché, sostanzialmente, in tutti i libri che ha pubblicato negli ultimi vent'anni. Non c'era alcun bisogno di scrivere due opere di duecento pagine ciascuna per ricordarci ciò che i migliori fra noi già sapevano e cio che i peggiori continueranno tranquillamente ad ignorare.
Entriamo nel merito. A Steiner obietterei che la cultura e l'amore per la parola nascono dallo spreco e dall'eccesso. Per poter giungere all'incontro con l'altro nell'arte bisogna estere sovra-educati. Il commento, la recensione, la chiacchiera saranno infine superflui, ma sono indispensabili, come Ermete Psicopompo, a guidare lo studente, il pubblico e lo studioso verso il confronto con la poesia nella pluralità dell'interpretazione. La democrazia americana delle lettere, la struttura professionale della "ricerca", è un superspreco a volte fastidioso, ma soltanto invitando il più largo numero di persone alla lettura si puà sperare, come sa qualunque insegnante, di formare il lettore " filologico" .
Allo stesso modo, che l'oggetto dell'arte non possa in ultima analisi essere ridotto a formula matematica e che dunque la "teoria" estetica o ermeneutica non avrà mai validità scientifica totale, è un truismo. Ma la teoria serve egualmente all'incontro, perché ci apre la comprensione altrui, ci fa combattere contro di essa, ci pone domande sferzanti sulla verità nella storia, mette a confronto, dalla "Poetica" di Aristotele in poi, le due facoltà che assieme sovrintendono all'intelligenza di un testo, e cioè l'intuizione e la ragione. Ogni resistenza alla critica e alla teoria è in fondo una rivolta contro quest'ultima, la quale organizza in proposizioni coerenti e comunicabili le epifanie lampeggiate alla prima, in un ri-conoscimento che è presa di coscienza di sé nel mondo.
Infine, che l"'incontro" sia da ultimo solitario, incantato e misterioso lo sappiamo da quando Ulisse è passato, nella improvvisa calma di vento, dinanzi alle Sirene, mentre i compagni avevano le orecchie chiuse dalla cera. Che alla creazione artistica sovrintenda una Musa, un daimon, una "alterità", è noto fin da Omero e Platone. È altresì evidente, però che le parole dei poeti (da J a K) sono umane, come anche i lettori che ad esse si accostano, e che è a tale incontro nell'umanità che la critica e la teoria hanno il compito di avviarci evitando errori fatali. Circe ha dato ad Ulisse istruzioni precise su come comportarsi davanti alle Sirene. Se Harold Bloom si fosse preso la briga di fare un po' di "ricerca" sul dantismo moderno, avrebbe scoperto che esso non è dominato soltanto da Croce in Italia, da Curtius in Europa, e da Auerbach, Singleton e Freccero negli Stati Uniti (mai sentito parlare di un certo Gianfranco Contini?) e che in ogni caso fra Auerbach e Singleton c'è di mezzo, letteralmente e metaforicamente, l'oceano.
Tra J e K, nell'alfabeto, non c'è alcuna lettera. Bloom riempie quel non-spazio con il suo canone "forte", usando il meccanismo dell'agone e della dislettura. Mi permetto di pensare che accanto all'uno e all'altra si dovrebbe prestare una qualche attenzione anche alla pace, all'affetto e alla "sinlettura" (la lettura con) nei quali si forma la tradizione. È ben vero che Dante elimina Virgilio in cima al Purgatorio (con grande dolore), ma è anche vero che le foglie di Sibilla al sommo del Paradiso sono memoria (e come non dirla, a quel punto affettuosa?) dell'"Eneide". La tradizione occidentale mi sembra essere un fenomeno leggermente più complesso che non una guerra di successione fra poeti giudicati "forti" ad arbitrio. Il poeta dell'"Odissea", da Bloom totalmente negletto (strano, perché anche l'"Odissea" è stata attribuita, in passato, ad una donna), è il primo dislettore dell'"Iliade". Forse che Ulisse, Oreste, Edipo, Antigone ed Elettra, ci "determinano" meno di Amleto e Falstaff? Né possiamo eliminare dal canone "forte" quel Testamento che Bloom ha sovente chiamato "tardivo", ma che la nostra cultura da circa duemila anni conosce come Nuovo. Per rimanere nell'ottica bloomiana: quando l'autore del quarto Vangelo inizia con "In principio era il Verbo", sta disleggendo Genesi (e non lo Jahvista, ma il Sacerdotale): e tutti e quattro i Vangeli nonché Paolo e l'autore dell'Apocalisse, sono in agon perenne con la Bibbia ebraica, che essi intendono addirittura "compiere" per mezzo del figuralismo tipologico (proposto da Auerbach e non compreso da Bloom). Inoltre, il sublime antico-testamentario non appartiene soltanto a J: l'anonimo, tradizionalmente chiamato Longino, che per primo formula una teoria del sublime, lo predica del "fiat lux" oggi attribuito al Sacerdotale. Se J è (freudianamente) sublime perché ironico spiazzante, perturbante, non si vede come questa sublimità possa dirsi di Milton (il quale infatti "transume" Omero e Virgilio tanto quanto la Bibbia). Ed è allora legittimo e opportuno anatomizzare Genesi ed Esodo dividendoli in lacerti conflittuali di J, S, E, e via di seguito? Dante e Milton, per fare solo due nomi, ignoravano la distinzione e leggevano la Bibbia come testo unitario. Critici contemporanei come Robert Alter ci hanno dimostrato (in lavori che Steiner chiamerebbe "secondari") che vale ancora la pena di leggerla in questo modo: non necessariamente dal punto di vista teologico, ma come testo letterario.
Ci viene detto che ogni poeta forte rovina le sacre verità riducendole in favole e canzoni. Pensavamo di avere appreso, nei secoli che ci separano da Andrew Marvell, che J, K e tutte le lettere dell'alfabeto prima e dopo di esse sono "finzioni", nelle quali la poesia dà forma al "credere" nelle verità e nei significati del suo tempo. Dobbiamo adesso presumere che la Signora alla corte di Roboamo componesse sotto diretta dettatura di Jahveh? E davvero è possibile scrivere un libro su "poesia e fede dalla Bibbia a oggi" senza dedicare un paragrafo, una chiacchiera, a Dostoevskij o T.S. Eliot? Se per Bloom costoro sono dei "deboli", di grazia ci spieghi perché.
Per concludere, vorrei tornare ad una delle pagine più belle del libro di Steiner, l'ultima: nella quale egli ci parla del sabato tra il Venerdl Santo e la domenica di Pasqua, sostenendo che esso è il giorno più lungo, quello dell'attesa tra la sofferenza, la solitudine, lo spreco indicibile da una parte, e il sogno di liberazione, di rinascita dall'altra. Tali, egli dice, la nostra percezione ansiosa dell'opera d'arte e le nostre raffigurazioni: "sabbatiane". È ben vero, e in maniera affatto secolare lo aveva compreso un poeta (forte o debole?) come Giacomo Leopardi. Tuttavia, n‚ Steiner n‚ Bloom ignoreranno che il sabato più bello nella storia dell'universo è quello in cui lo J Maiuscolo e Primo si fermà dopo sei giorni di Creazione. Scriveva in proposito Wittgenstein: "il Sabato non è semplicemente il tempo del riposo, ma quello in cui dovremmo contemplare le nostre fatiche da fuori e non soltanto da dentro". Tutti, non esclusi i critici tragici e sublimi.
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