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Non voglio stroncare questo libro ma neanche dargli un voto alto, anzi non credo di essere nella condizione di valutare la storia in sé perché non l'ho finito. Ho trovato il linguaggio troppo dialettale quindi non sono riuscita a comprendere il senso di alcune frasi. E' come quando sui banchi delle scuole superiori si leggevano i Promessi Sposi e per capirci qualcosa la professoressa doveva tradurre riga per riga perché altrimenti gli studenti non riuscivano a comprendere l'italiano antico. Ecco a me è successo proprio questo, avrei avuto bisogno di una traduzione perché in certi punti proprio non capivo il senso delle frasi. E' finita che ho chiuso il libro senza finirlo perché, insomma, chi me lo fa fare di impazzirci sopra?!? Per questo motivo non so dare una valutazione realistica della storia, che magari sarebbe stata anche carina se raccontata nell'italiano corrente.
Se "La leggenda del morto contento" è un titolo che già di suo invoglia al sorriso, non è una leggenda, no, che i libri di Vitali portino contentezza. Io li leggo appunto così, sorridendo, e dopo mi sento meglio, anche quando ci sono dei morti. La penna delicata, che pure resta attaccata alla carta per la scrittura potente nella quale l'autore si distingue, porta allegrezza persino se la narrazione sceglie di sacrificare alcuni dei personaggi (si sa, i personaggi vivono di vita propria, gli scrittori lo dicono) di uno scenario, quello vitaliano, sul quale io lettrice vorrei non calasse mai il sipario. In questo romanzo, personaggi forti sono anche il vento nelle sue declinazioni lacustri e, l'ho sentito più che negli altri forse, il lago che è sempre quello eppure - non sembra anche a voi? - sempre nuovo, nel continuare a svelare la geografia dell'animo umano stavolta in un'ambientazione storica diversa dai precedenti libri.
perché i libri di Vitali non sono lunghi 800 pagine? starei giorni interi a leggere le sue storie argute, salaci, agrodolci, sottilmente ciniche ma spassosissime. nessun suo romanzo mi ha mai deluso, anzi, mi intrattiene e stuzzica ogni volta. leggero, ma profondo; acuto osservatore, sagace e intelligente, sa creare intrecci e quadri di vita davvero brillanti e originali. ho letto tutti i suoi libri, ma mi conservo gli ultimi due titoli usciti per quando avrò bisogno di buonumore, di quel sano sorriso che scaturisce spontaneamente quando mi addentro tra le sue pagine, tra i nomi improponibili e le assurde peripezie dei suoi personaggi.
Recensioni
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Da molti anni, da quando era assurto alla carica di delegato di Polizia, Geronzio Manichetta seguiva la stessa norma, valida per tutti gli atti criminosi: se c’era un morto, ormai era morto, inutile stare a rimestare nel torbido. Il Podestà Feneroli, a cui riferiva i rari atti criminali che accadevano a Bellano, in fondo la pensava come lui, ma non era dello stesso avviso Sua Eccellenza il Prefetto Dipartimentale del Lario, che risalendo via via più in alto lungo la linea della piramide burocratica, nel 1843 rispondeva direttamente al Governatore Asburgico. Le circolari che Sua Eccellenza emetteva di frequente erano chiare, pompose e suonavano come avvertimenti: le indagini delle forze di polizia erano troppo spesso lacunose quando non addirittura frettolose.
Lo sapeva bene la Diomira, la moglie del taciturno sarto Lepido. Quando aveva appena due anni i suoi genitori erano morti annegati nel lago, fuori dalla zona di competenza di Bellano e durante la pesca di frodo, per questo nessuno si era mai preoccupato né di rintracciarne le cause, né di recuperare i cadaveri. La povera bimba era finita in mano ad alcuni parenti svizzeri, prima di sposarsi con il buon Lepido e ritornare nel suo paese natale. Nonostante l’animo schivo e restio alla conversazione e una brutta malformazione al naso, Lepido si era rivelato un marito docile e con un buon mestiere. Certo andava rimbrottato, scrollato, anche pestato, visto che si lasciava troppo spesso distrarre dai movimenti del cielo, dai venti e dalle nuvole, ma la Diomira sapeva scuotere quel suo aspirante scienziato, urlandogli dietro qualunque cosa e lasciandolo spesso senza pranzo.
Anche la mattina del 25 luglio 1843 era uno di quei giorni in cui il mite Lepido, anziché stare a tavola, osservava le nuvole sul lago. Era un giorno di favonio, il vento di tempesta tipico della zona, un giorno in cui si annunciano i naufragi. Chi avrebbe mai osato sfidare le forze della natura per entrare in acqua mentre si preparava la bufera? Chi erano i due giovani che Lepido vide armare la barca per raggiungere l’altra sponda? I due che lo derisero quando li avvertì che non era la giornata giusta per prendere il largo?
Solo uno scemo l’avrebbe fatto, pensarono tutti quando il cadavere di un giovane, poche ore dopo, venne ripescato dall’acqua. Ma lo pensarono solo per un attimo, perché “lo scemo” in questione era nientemeno che Francesco Gorgia, unico figlio ed erede del più ricco e influente mercante del paese. Come se non bastasse l’unico testimone dell’imbarco, il sarto Lepido, aveva visto due giovani e non uno. Chi era l’altro? Si seppe presto che il disperso, compagno di avventure del rampollo bellanese, era un giovane altrettanto in vista, Emilio Spanzen, figlio dell’ingegnere ferroviario Kaspar Spanzen, amico del governatore autriaco, in visita a Bellano per la progettazione di una nuova importantissima tratta.
Il delegato di polizia Manichetta e il Podestà Feneroli compresero subito la gravità della situazione e avviarono le indagini: bisognava trovare al più presto il responsabile dello sciagurato evento. Così, come accadeva spesso in quegli anni - quando gli Imperi cercavano di consolidare il loro potere usando ogni mezzo - la giustizia venne distribuita un po’ a caso e senza certezze. Si poteva solo dedurre dalla prassi consolidata che i poveri, se offesi, potevano tranquillamente farne a meno.
Andrea Vitali, senza lasciare i luoghi cari alla sua produzione letteraria, il Lario e i paesi che vi si specchiano, per la prima volta risale all’epoca lontana della dominazione austriaca. I suoi personaggi, da sempre affascinanti nella loro discreta umanità e nelle loro espressioni grottesche, assumono qui un tratto malinconico che non avevamo trovato neanche nei romanzi di ambientazione fascista. Anche la sua ironia questa volta è più amara, è quasi un ghigno, come quello che si può trovare a volte sul viso di un morto suicida, che pure ride, quasi ne fosse contento.
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