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Boh, non lo so... Il libro è scritto benissimo e riesce comunque a catturare il lettore, i personaggi sono ben delineati, ma quando ho letto l'ultima riga il mio pensiero è stato: "e quindi?". E' come se la storia, anzi le storie, fossero state lasciate a metà, manca una conclusione e, forse, manca un senso.
Recensioni
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Il titolo del romanzo, scritto dall'autore del Paziente inglese (Garzanti 2004; Booker Prize 1993, da cui il pluripremiato film di Anthony Minghella), è chiarito a un certo punto della storia da uno dei personaggi principali, Anna: "Io vengo da Divisadero Street. Divisadero, 'separazione' in spagnolo, era la strada che tracciava la linea di confine tra San Francisco e i campi del Presidio. O potrebbe derivare dalla parola divisar, che significa 'osservare qualcosa da lontano'. (Nella zona c'è un rilievo che si chiama El Divisadero). Un punto dal quale si può guardare il paesaggio in lontananza". Divisadero come quella stradina di Parigi di cui si parla nei Misérables, inventata da Victor Hugo "a beneficio di Jean Valjean, per permettergli di sfuggire ai suoi inseguitori". È il luogo dell'arte come rifugio, "luogo in cui possiamo nasconderci, dove una voce che parla in terza persona ci protegge". È un principio che si ispira a Colette (è detto esplicitamente) e a Nietzsche, in quella citazione che incornicia e "battezza" il romanzo a partire dalla prima pagina per tornare nell'ultima: "Noi abbiamo l'arte (
) per non morire a causa della verità".
Anna fugge dalla verità per rifugiarsi nell'arte, appunto, e assieme a lei scorre la storia raccontata in questo romanzo. Nella prima parte ci troviamo nella California degli anni settanta, in una fattoria di Petaluma dove riecheggiano ancora i sogni dei mitici cercatori d'oro. Qui Anna cresce assieme al padre, alla sorella adottiva Claire, trovatella raccolta nello stesso ospedale dove sua madre moriva di parto, e Coop, un lavorante, anch'egli orfano. Fra i tre si stabilisce un rapporto strettissimo, una felice simbiosi fra le due sorelle con l'ammirazione di entrambe per l'amico e maestro di vita, il taciturno Coop, una sorta di guardiacaccia Mellors banalizzato e modernizzato. La verità infrange l'idillio d'amore, sbocciato in modo improvviso e incontenibile, tra Anna e Coop, quando il padre di lei li sorprende l'una tra le braccia dell'altro ("Ad Anna parve che, qualsiasi cosa avessero dentro, fosse passata dall'uno all'altra") e li divide per sempre. Nella seconda parte che comincia con un titolo come Il rosso e il nero siamo negli anni novanta e lo sfondo è la guerra del Golfo. Coop è un abile giocatore di poker, l'amante di una fascinosa eroinomane, ma presto perderà la memoria in seguito a una rissa fra tipi poco raccomandabili e si ritroverà tramortito tra le cure di Claire, che nel frattempo ha trovato un impiego presso un avvocato di San Francisco. Più evanescente resta il personaggio di Anna, mimetizzata all'interno della storia di Lucien Segura, uno scrittore che ha abitato la casa di un piccolo villaggio dei Pirenei dove ora vive lei. L'indagine di Anna intorno a questo scrittore sviluppa a sua volta una storia di amori e di incontri, di separazioni e di dolore con cui la propria vicenda si sovrappone e si intreccia, e che finisce per essere senz'altro più riuscita della prima.
Attraverso un intreccio esageratamente traboccante di personaggi, di situazioni, di cortocircuiti cronologici e narrativi, tornano alla luce antiche questioni come il rapporto fra arte e vita, l'identità che si costruisce attraverso l'intermittente reciprocità dei rapporti, il desiderio e la nostalgia, il continuo cercarsi trovandosi spesso altrove, in altre storie, in altre persone che si affacciano come specchi ai ricordi passati. Si tratta di motivi che però non conducono a un risultato molto convincente, soffocati all'interno di un variegato feuilleton con strade che si dividono per ricongiungersi, orfani che si perdono di vista, padri violenti e implicitamente incestuosi e amplessi consumati sotto i temporali californiani e tra le brughiere dei Pirenei. Il tutto farcito con molte citazioni letterarie che stentano ad amalgamarsi e a scomparire nel tessuto della storia. Ma soprattutto l'originalità fatica ad affermarsi e il linguaggio elegiaco, che patisce la pressoché totale mancanza di ironia, fa slittare molte situazioni, già di per sé talvolta stereotipate, verso una forma di involontaria comicità. Eppure, tra paesaggi suggestivi e scene romantiche, il romanzo (come molti altri, oggi) sembra costruito nei minimi dettagli per essere immediatamente trasformato in un film di successo. Può darsi che ciò avvenga. Ma con un po' di caustico sarcasmo si potrebbe dire che se questa è arte, forse è meglio morire a causa della verità. Chiara Lombardi
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