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Nell'introduzione alle lezioni su Paolo, che possono essere considerate il suo testamento spirituale, Jacob Taubes ha evocato gli "sconvolgenti" colloqui avuti con Carl Schmitt a Plettenberg nel 1979. Dei contenuti confidenziali di quelle conversazioni, considerati come "coperti dal segreto confessionale" (La teologia politica di San Paolo, Adelphi, 1997), Taubes però nulla ci ha rivelato. Il Glossarium, un diario redatto tra il 1947 e il 1951, pubblicato in Germania nel 1991 e ora proposto in traduzione italiana, lascia filtrare qualche spiraglio di luce su quegli arcana e al tempo stesso finisce per rendere ancora più enigmatica la figura del più grande giurista tedesco del XX secolo.
Fin dalla prima annotazione del testo, datata 28 agosto 1947, Schmitt porta allo scoperto quello che possiamo considerare se non proprio il tema conduttore quanto meno il rovello delle private meditazioni di un giurista che per tre volte è stato alla mercé del Leviatano (dapprima come Benito Cereno in balia di una ciurma criminale, poi prigioniero dei russi e poi ancora degli americani) e che ora è condannato a tacere: rovello, la trahison des clercs, che è anche un motivo centrale dell'autocoscienza del Novecento. Rispetto alla tesi proposta da Julien Benda nel suo libro famoso, Schmitt ci propone però un sostanziale capovolgimento. Non sono i chierici ad aver tradito, sono stati i capi e le masse a tradirli, o meglio a tradire coloro che hanno cercato invano di collocarsi al di sopra delle parti della guerra civile ideologica. E il tradimento trova ora il suo compimento nel crimine massimo di Norimberga, nel processo ai vinti condotto con l'arroganza di chi si considera vincitore di una guerra giusta, "la cosa più terribile che la prepotenza umana abbia saputo creare". Per lui peggiori dei criminali sono i criminalizzatori. La politica, nella sua visione del mondo, pare essere un ambito sottratto a ogni moralizzazione e a ogni procedura giudiziaria.
Se il riferimento a problematiche, autori e interlocutori sembra conferire al diario un'oggettività insolita per un siffatto genere letterario, il tema è in realtà, piuttosto ossessivamente, la vicenda dell'autore, una vicenda trasfigurata entro un contesto di storia universale che impedisce di accertare e perseguire responsabilità individuali. A proprio discarico è invocata la grandezza e l'ineluttabilità del destino, a carico altrui la malvagità, il risentimento e la volontà persecutoria (di cui gli emigrati per effetto delle leggi razziali sono in queste pagine un'incarnazione quasi demoniaca). Il tono è difensivo e apologetico, ma il contenuto è innegabilmente filonazista e antisemita. L'introduzione di Joseph Kaiser, nel maldestro tentativo di accostare questo diario a quel "libro onesto" che sono i Saggi di Montaigne, accresce nel lettore l'irritazione nei confronti di una strategia difensiva totalmente sorda alle ragioni della partecipazione morale alle sofferenze altrui (chi leggesse questo libro ignorando la storia tedesca non potrebbe nemmeno sospettare l'esistenza della shoah).
Non credo proprio si possa definire Glossarium un "libro onesto". L'autore, a un certo punto, si chiede se sia lecito a un cristiano tenere un diario e menziona le Confessioni, in cui Agostino "espone solo circostanze a suo carico". Schmitt però fa l'esatto contrario, e in queste pagine è animato soltanto dalla volontà di scagionare se stesso. In Ex captivitate salus, l'operetta coeva a questo diario pubblicata nel 1950, dichiara la sua riluttanza a parlare di sé: "Un giurista che ha educato se stesso, e molti altri, all'oggettività, evita gli egotismi psicologici (...) Chi vuol confessarsi, esca e vada dal parroco". Confessioni, in effetti, non se ne trovano nemmeno in queste pagine. Ma l'egotismo psicologico straripa ovunque, lasciando l'impressione che la tragedia del totalitarismo coincida esclusivamente con la sua personale sventura. Il vero crimine compiuto dal nazionalsocialismo non è stato lo sterminio degli ebrei ma "lo sterminio della burocrazia prussiano-tedesca nel 1945", non il genocidio ma l'ideocidium perpetrato nei suoi confronti. Eppure il suo unico errore è stato di sottovalutare la stupidità e volgarità degli uomini, la sua compromissione minore di quella cui Platone s'era esposto con i tiranni di Siracusa. E poi, in definitiva: "Che cosa fu più indegno: appoggiare Hitler nel 1933 o sputare su di lui nel 1945?". Al dittatore, a sua volta, viene imputato soltanto un errore strategico, delle cui disastrose conseguenze è moralmente corresponsabile, anzi primario responsabile (Versailles), l'Occidente: "un tedesco pazzo che, appoggiato dall'Occidente, era convinto di poter condurre non solo una guerra su due fronti, ma addirittura due diversi tipi di guerra, una non discriminante a Occidente e una discriminante a Oriente".
È difficile immaginare un libro così poco cristiano e al tempo stesso così profondamente rappresentativo dell'antisemitismo cattolico (è ancora Taubes nel libro sopra citato a definire Schmitt un "autentico antisemita cattolico"). Ciò che nelle pubblicazioni del dopoguerra non si poteva dire, filtra qui con naturale spudoratezza. Nel Canto del sessantenne, che chiude la testimonianza di Ex captivitate salus, leggiamo: "Conosco i molti volti del terrore, / il terrore dall'alto e il terrore dal basso, / terrore sulla terra e terrore dall'aria, / terrore legale ed extralegale, / terrore bruno, rosso e pezzato, / e il peggiore di tutti, che nessuno osa nominare". Nel Glossarium il discorso si fa più esplicito, e accanto al terrore legale ed extralegale compare l'endiadi "terrore dei nazisti e degli Ebrei". Gli ebrei sono i veri vincitori della seconda guerra mondiale e i protagonisti di quel processo di discriminazioni e criminalizzazioni in cui viene travolto l'ordinamento giuridico dello spazio europeo. Gli ebrei "restano sempre Ebrei, mentre il comunista può migliorare e trasformarsi". E ancora: "Proprio l'Ebreo assimilato è il vero nemico". Il tenore emotivo del diario oscilla tra l'autocommiserazione più spudorata di chi si descrive come perseguitato dagli "assassini di Cristo" e la iattanza intellettuale di chi sentenzia: "Non offrire mai ai tuoi nemici la possibilità di comprenderti. Finché commettono ingiustizie nei tuoi confronti non ti hanno compreso. Di questa grande soddisfazione colui che è ingiustamente perseguitato può nutrirsi abbondantemente". La tendenziosità cattolica emerge anche nei confronti del protestantesimo, a cui sono imputate in blocco le degenerazioni politiche della modernità. La logica del protestantesimo è infatti condensata nella formula "carisma contro istituzione" e questo, nella sbrigativa filosofia della storia di chi abusa delle genealogie intellettuali pur deprecandone l'uso presso i suoi avversari, "porta al capo assoluto".
Di fatto il libro è un magazzino di munizioni per una storiografia revisionistica (ed è noto che il suo capofila, Ernst Nolte, ha largamente attinto al repertorio ideologico schmittiano, arricchendolo qua e là, in modo capzioso, di qualche insistito tocco arendtiano). Schmittiana, intanto, è l'idea della guerra civile, europea prima, mondiale poi. Il genocidio, mai esplicitamente tematizzato, appare nella ricostruzione storica del Glossarium soltanto un anello, e nemmeno il più importante, in una catena di ingiustizie che culmina nell'umiliazione del popolo tedesco e nella messa al bando dell'ultimo autentico erede della scienza giuridica europea. "La serie ininterrotta delle ingiustizie: l'ingiustizia di Versailles cresce fino all'ingiustizia di Hitler, e questa fino a quella di Jalta, Mosca e Norimberga". Norimberga è dunque per lui il vero crimine inespiabile della storia del Novecento, perché attraverso la sua giustizia politica si attua la perversione del diritto in "mero bottino del vincitore". A sorreggere l'intera ricostruzione sta poi il rifiuto della modernità e della sua "triste menzogna", la pretesa di discriminare moralmente destra e sinistra.
Ciò detto, come spesso accade per i grandi libri, la disonestà non esclude l'intelligenza. E questo è un libro assai penetrante. E lo è non solo per la virtuosistica bravura con cui l'autore spazia da Goethe a Konrad Weiss, dal Biedermeier all'operetta, da Hegel a Donoso Cortés, proponendo le più audaci genealogie intellettuali ed esibendosi in un dialogo diretto con gli autori a lui esistenzialmente più vicini, sebbene in fondo non amati, Heidegger e Jünger, ma per la capacità di cogliere, nonostante la sua tendenziosità di giudizio, i tratti inquietanti del proprio tempo. Schmitt va al cuore di problemi che sono ancora i nostri: il venir meno di una chiara linea divisoria tra guerra e pace, il carattere discriminatorio della costruzione giuridica della guerra giusta, che non riesce a liberarsi dal ricorrente sospetto dell'ideologia, il deficit di legittimità e di efficacia della giurisdizione internazionale, che finisce invariabilmente per apparire giustizia dei vincitori e dunque fonte di nuovi conflitti. "Se il nemico diventa giudice, il giudice diventa nemico". Con la messa al bando della guerra, ammonisce Schmitt, l'ostilità in realtà non scompare dal mondo, semplicemente la guerra tra stati sovrani torna a essere guerra coloniale e guerra civile. Che è, in buona sostanza, quanto sta in incubazione dietro le tante tensioni che oggi, discutendo Huntington, rubrichiamo sotto l'etichetta di "scontro di civiltà".
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