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La nascita della categoria del politico in Grecia - Christian Meier - copertina

Dettagli

1988
22 novembre 1988
520 p.
9788815003034

Voce della critica


recensione di Bertelli, L., L'Indice 1989, n. 7

Sotto il titolo, schmittianamente allusivo, di "La nascita della categoria del politico in Grecia", viene presentata la traduzione della raccolta di saggi - in parte editi, in parte inediti - di Christian Meier, comparsa presso l'editore Suhrkamp nel 1980: essa, nell'ambito specialistico della storiografia antica, ha già avuto una certa risonanza polemica sia in Italia (si vedano in particolare gli interventi critici di G. Cambiano, "Athenaeum", n.s. LX, 1982, pp. 547-554, e di M. Ghelardi, "Quaderni di Storia", 21, 1985, pp. 165-173) sia all'estero.
Nonostante la sua apparente natura collettanea, quest'opera offre una interpretazione globale e coesa del fenomeno politico greco (ateniese) con l'evidente impegno di rinnovare, in senso metodologico sia in senso ermeneutico, il rapporto tra l'antichità e la modernità in un campo di particolare importanza per la valutazione di entrambe le epoche-quello politico. Non mi pare n‚ equo n‚ intelligente storiograficamente l'atteggiamento di quei critici specialisti che si sono lasciati sopraffare dall'"impazienza e la frustrazione" (cfr. W. Schuller, "Gnomon", 55, 1981, pp. 769-773) di fronte al linguaggio e alla "concettualizzazione" meieriana dei fatti o che, inghiottiti dalle sabbie mobili del gergo sociologico (cfr. R. Seager, "Journal of Hellenic Studies", 102, 1982, p. 266 sgg.), non sono stati capaci di vedere la novità e l'importanza della proposta interpretativa. Chi è abituato, come il Veyne, a lavorare con strumenti storiografici che non siano soltanto la tavoletta e lo stilo degli antichi, è in grado di riconoscere la novità dell'impostazione storiografica di Meier "Voilà une histoire qui n'est ni événementielle, ni idéologique, ni purement sociale, ni philosophique" (cfr. prefazione alle lezioni parigine raccolte nell'"Introduction à l'anthropologie politique de l'antiquité classique", Paris 1984, p. 6), e non è casuale che Meier e Veyne abbiano collaborato alla pubblicazione di un volume comune sull'identità politica del cittadino greco ("Kannten die Griechen die Democratie?", Berlin 1988), di cui Il Mulino ha messo a disposizione in questi giorni la traduzione italiana.
In effetti il retroterra metodologico e "ideologico" di Meier - se per ideologia intendiamo la sua concezione generale del politico - è piùttosto insolito anche nel panorama della storiografia antichistica tedesca. Un pieno e intelligente apprezzamento delle qualità e dei limiti della sua ricostruzione del politico greco può passare solo attraverso la comprensione e la verifica delle sue opzioni storiografiche. E queste si richiamano a due tradizioni perfetta- mente coerenti tra loro: la "Begriffisgeschichte" ("Storia concettuale") di R. Koselleck e del gruppo di lavoro dei "Geschichtliche Grundbegriffe" (cui lo stesso Meier ha collaborato e collabora tuttora attivamente), e la "Verfassungslehre" ("teoria costituzionale") di C. Schmitt (i contatti stretti tra le due esperienze sono noti: cfr. a questo proposito P. Schiera, "Indice", VI, 1, 1989, p. 22, e l'intervista di E. Tortarolo a Koselleck, ibid., p. 23 e sgg.). La "storia concettuale" o "storia sociale" koselleckiana fornisce a Meier un punto di osservazione 'weltgeschichtlich' ("storico-universale") e le categorie concettuali (identità politica, categorie del mutamento, dell'accadere, del "progresso" ecc.), necessarie a dare risposta alle due questioni che costituiscono l'oggetto della sua ricerca: le circostanze "per cui una democrazia si sviluppò presso i Greci, a differenza di quanto avvenne in tutte le altre culture precedenti o contemporanee" e l'interrogativo "in che cosa sia consistito il politico presso i greci e che cosa lo abbia caratterizzato precipuamente come elemento determinato e insieme determinante della vita della società greca" (p. 9).
L'intenzione dell'autore nel porsi queste domande, non è l'astratta posizione dello storico che cerca di collocare i fenomeni antichi nel loro flusso temporale, ma è quella più impegnata del filosofo della politica che, attraverso l'individuazione delle qualità idealtipiche del politico presso i greci (p. 19), tenta di trovare un orientamento nella crisi contemporanea di quella stessa categoria, dovuta alla sua simultanea totalità, dispersione e debolezza. Ma l'atteggiamento di Meier è scevro di ogni forma di "classicismo" in quanto il momento "classico" del politico presso i Greci gli appare ormai del tutto estraneo (p. 20), per le sue pecualiarità, rispetto alla condizione moderna, anche se si può parlare di corrispondenze e "famigliarità" di quel mondo col nostro. Perciò Meier rifiuta il "comparativismo livellatore" della metodologia antropologica (sociale inglese: la polemica è con S. Humphrey; cfr. n. 17, p. 20), e l'accezione "politologica" (e generica) di politica come strumento per il raggiungimento di fini extra-politici (e qui la polemica è col Finley; cfr. p. 266). Lo strumento che gli pare più adatto per individuare la specificità del "politico" greco (in realtà, come al solito, ateniese) e i suoi effetti in ordine allo sviluppo della democrazia, è derivato dalla formulazione schmittiana del "criterio razionale" del "politico" come "grado di intensità di un'associazione o di una dissociazione di uomini" (p. 31), che al grado estremo - "politico" appunto - si manifesta nella relazione amico-nemico. Ma la derivazione comporta forti limitazioni al "criterio razionale" schmittiano, in quanto l'attuazione del "politico" greco si configura per Meier piuttosto nel superamento all'interno dell'unità politica della "relazione amico-nemico" e nel suo trasferimento, all'esterno ai rapporti con le altre comunità politiche, oltre che nell'applicazione limitata, all'interno, nella fase di formazione della 'polis', alla sua "preistoria", connotata appunto da forti conflittualità tra le unità "autocefale" nobiliari-famigliari e tra queste e vasti strati della popolazione. Dal momento in cui si impone la solidarietà cittadina e si avvia quel processo di "politicizzazione", che si conclude nell'affermazione dell'identità politica (identità dell'uomo col cittadino e con la città) come modo di vita esclusivo, il "politico" come "grado di intensità (massimo) dell'associazione e della dissociazione" perde progressivamente terreno, in virtù del fatto che l'"essenza dell'unità politica consiste nell'escludere (la) conflittualità estrema" dal proprio ambito (p. 34). E parallelamente il "politico" si attesta su una linea più neutrale di quella del grado forte, "esistenziale", della categoria schmittiana, identificandosi col "terreno di relazioni reciproche e di antagonismi" (p.14), dal quale tutta via i fattori antagonistici tendono a scomparire con l'espandersi della "politicizzazione".
Il cammino inarrestabile e necessario della "'Politisierung'" verso la democrazia del V sec. (p. 81: i Greci "erano n‚ più n‚ meno destinati al libero pensare", idea burckhardtiana che Meier sottoscrive senza esitazioni) è ripercorso nelle sue fasi note: creazione di una "legalità generale" ('eunomia'), come prodotto della "terza posizione" dei "saggi" del VI sec. (tipica figura Solone ateniese), interpreti di un "vasto" e anonimo movimento sociale (di cui tuttavia Meier non dà mai la misura esatta), definito come la "storia sociale del pensiero politico"; attuazione del principio dell'eguaglianza politica e giuridica con la riforma clistenica, che apre possibilità reali alla volontà di partecipazione politica e di solidarietà civica a "larghi strati" della popolazione attica, sottraendoli ai legami sociali di dipendenza dalla nobiltà, che continua a mantenere i suoi privilegi economico-sociali - ed anche politici nell'accesso alla carriera politica, ma in un contesto diverso. Con Clistene si produce una reale alternativa alle forme di dipendenza antiche nella nuova identità del cittadino, nella sua "qualità di cittadino", che relega in secondo piano le differenze economico-sociali (l'universo del privato "arcaico"). Il terzo momento - fondamentale per Meier, ancor più della riforma clistenica per la nascita della "politicizzazione" dell'ordinamento statale costituente il nocciolo duro della democrazia -coincide con la "rivoluzione efialtica" del 462 a.C. (esautorazione dell'Areopago ed eli- minazione dell'ultima barriera aristocratica alla realizzazione piena della democrazia).
La ricostruzione di questa terza fase è tradotta in una raffinata operazione di confronto tra la situazione reale - e i problemi che lasciava aperti - e il messaggio delle "Eumenidi" di Eschilo, prodotte nel 458 a.C. Poi la democrazia periclea con il suo incomparabile altissimo tasso di solidarietà civica, identità degli interessi individuali con quelli collettivi, "devozione" alla politica quasi autolesionista (p. 261: "molti ateniesi trascurarono... in misura sorprendente i propri interessi privati e le preoccupazioni personali per partecipare in quanto cittadini": vorremmo conoscere i nomi di questi cittadini "ideali", visto che l'accusa comune all'eccessivo attivismo politico 'polypragmosyne' è quella di trarre profitto privato dalla politica), coerentemente la sfera del privato, dell'economico, del sociale si ritira in un universo immobile, che è destinato a produrre solo le "condizioni necessarie" (gli 'anankaia' aristotelici) di questa forma di democrazia. E tra queste "condizioni necessarie", escluse dal "politico" in quanto campo unico delle relazioni tra cittadini, stanno gli schiavi che, col loro lavoro, permettono ai cittadini l'utilizzazione politica del tempo, e l'impero che fornisce i mezzi per la distribuzione delle indennità politiche. Il carattere "impolitico" della gestione dell'impero deriva ovviamente dal presupposto che la categoria del politico si attui tutta all'interno dell'unità politica, e che le relazioni con l'esterno - impero compreso - facciano parte di quella 'facies' del "politico" - il rapporto amico-nemico - sradicato dall'interno della comunità, e proiettato appunto solo sulle relazioni esterne. Ma è anche ovvio che Meier rivela una volontaria cecità nell'escludere dal suo orizzonte i rapporti problematici tra Impero e democrazia.
La rappresentazione meieriana della democrazia attuata si presta anche ad altre fondamentali obiezioni: la solidarietà e l'"identità politica" chiudono qualsiasi possibilità a gruppi di interesse di presentarsi come concorrenti a livello "costituzionale", da ciò la mancanza di fazioni nella democrazia (p. 274), anche perché l'aristocrazia trovava sufficienti motivi di compenso al "peso" dell'eguaglianza politica, e il 'demos' da parte sua si sentiva ripagato dall'"identità politica" per le permanenti differenze economico-sociali. Una democrazia dell'accordo e dell'armonia e dell'agire politico talmente radicato, che è in grado di produrre una certa forma di storiografia, centrata sull'esperienza dell'accadere politico, e un concetto di "progresso" (all'interno della più generale categoria dell''auxesis' o dell'accrescimento delle possibilità) che si realizza come "coscienza di potere" in ogni campo dell'agire. A parte queste ultime "conseguenze" della democrazia, che costituiscono un correlato molto acutamente evocato da Meier, è il suo modo di porre i rapporti tra "pubblico" e "privato", tra sfera economico-sociale e "politico" che lascia parecchie perplessità. Pericle, in quel suo famoso discorso (Tucidide, II, 35-46), cui Meier si appella per connotare i tratti della democrazia, fa anche forti riferimenti al "privato" ('idia diaphora', "contese private") che ricadono sotto l'atmosfera generale dell''isonomia', non si astiene, in un discorso pubblico, dal ricordare particolari della vita privata ateniese come segni della libertà democratica.
È stato recentemente detto - (D. Musti, "Quaderni Urbinati", n. 5, 20, 1985, pp. 7-17) - che l'apporto della democrazia periclea non consistette tanto nel "predominio del pubblico" sul privato, fino alla sua immobilizzazione nel retrobottega della democrazia, ma nel raggiungi- mento di un sapiente equilibrio tra le due sfere della comunità politica. È evidente, anche se qui non possiamo argomentarlo diffusamente, che Meier da una parte accetta come "realtà" della democrazia la sua rappresentazione in certe fonti marcatamente ideologizzata in funzione parenetica e anti-oligarchica, dall'altra proietta sul cittadino democratico l'ombra dell''areté', della virtù politica del 'polites' virtuoso di Aristotele. D'altra parte l'identificazione proposta da Meier tra "politico" e democrazia, risulta estremamente pericolosa, in quanto la crisi della democrazia comportava per ciò stesso la crisi del "politico", non la sua trasformazione: Meier si limita alla "nascita" della democrazia in Atene, non affronta anche il periodo della sua crisi per verificare se la sua accezione di "politico" greco funzionava anche di fronte a una situazione in cui il "politico" e la democrazia non rispondevano più a quelle caratteristiche del periodo pericleo.
Come in altre occasioni, anche nel caso di Meier il "classicismo", sconfessato pubblicamente, rientra surrettiziamente nel discorso attraverso significativi silenzi. A fine lettura viene il sospetto di aver già letto altrove questo inno alla democrazia pacificata: come ad altri (cfr. Cambiano), anche a me è venuto di ricordare che nelle "Lezioni sulla filosofia della storia" (vol. III) Hegel rappresentava in modo molto simile a Meier l'esplicarsi della "bella individualità" greca nella sua costituzione democratica, fondata sull'"unità della volontà soggettiva con quella oggettiva".
Nonostante tutti i motivi di dissenso, è innegabile il merito di Meier nel suscitare la discussione sulle "ovvie verità" degli oggetti della ricerca storica e di proporre un metodo che, seppure esposto a molti rischi (soprattutto a quello di sostituire i fatti con le idee sui fatti), ha in sè la potenzialità di dare risposte nuove a vecchi problemi. All'intelligenza storico-critica dell'autore non corrisponde una pari sagacità nella cura editoriale di un'opera, la cui scelta fa certamente onore alla casa editrice: le difficoltà del testo (soprattutto linguistiche) richiedevano almeno un adeguato impegno per non renderne ancora più complicata la lettura. Il lettore troverà la traslitterazione del greco francamente incomprensibile nella maggioranza dei casi (gli si richiede 'divinatio' filologica per capire sotto i 'monstra ananeaia' di p. 299 e 'pselusmato' rispettivamente 'anankaia' e 'psephismata'), l'ordine delle note sconvolto tra p. 103 e p. 134, non gradirà certo l'abolizione degli indici esistenti nell'originale, e si chiederà che cosa abbia a che fare la "vendita dei figli" (nell'originale 'Kinderreichtum', "abbondanza di figli") con la disparità della distribuzione fondiaria a p. 65.

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