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1987
6 marzo 1987
273 p.
9788815012845

Voce della critica


recensione di Soletti, E., L'Indice 1987, n. 7

A chiusura e commento dei suoi "Selcted Writings", Jakobson ha posto in calce le "Retrospects" (ora tradotte, con la sola eccezione della settima che chiude il volume dedicato a " Contributions to Comparative Mythology "), che ruotano intorno ai fondamenti teorici del suo pensiero linguistico. Riflettendo sui lavori che lo hanno appassionato per decenni Jakobson sottopone le sue tesi a confronti con posizioni divergenti o contrarie, così i saggi mantengono il tono polemico e penetrante di un'inesausta e inappagata intelligenza critica. Si staglia il quadro di un pensiero che si è volto con pari profondità analitica e sintetica all'epica come alla poesia moderna, al folklore come alla mitologia, all'afasia come alla filologia e alla fonologia. Di questa ricchissima biografia intellettuale Jakobson stesso offre il filo d'Arianna per riconoscere l'unità di principi e di criteri che informano i suoi lavori. In primo piano il principio dell'invarianza nella variazione, e poi la progressiva messa a punto della definizione funzionale dei tratti distintivi dei fonemi (un'elaborazione che matura negli anni del Circolo Linguistico di Praga, a contatto con Trubeckoj) e la rilevanza assoluta data ai rapporti di relazione e di opposizione degli elementi linguistici tra di loro. Spesso nel suo serrato argomentare Jakobson riesamina, corregge e in parte respinge alcuni assunti dell'altro grande iniziatore della linguistica strutturale, Saussure. Rifiuta infatti il concetto dell'arbitrarietà del segno, e la presunta antinomia tra sincronia e diacronia, "sostenendo piuttosto l'idea di una sincronia permanentemente dinamica, e sottolineando nello stesso tempo la presenza di invarianti statiche nel taglio diacronico della lingua". Indissolubile infatti è per lui il legame tra suono e senso, tra linguistica e poetica. Non a caso i fondamentali studi sulla fonologia prendono le mosse dal linguaggio poetico di Chlebnikov, dove scomponendo questa complessa testura formale, giunge a cogliere gli elementi minimi costitutivi. Così come nel noto studio, condotto con Lévi-Strauss sul sonetto di Baudelaire "Les chats", afferma il valore semantico delle figure della grammatica (nelle opposizioni sing./plur., masch./femm., 1|/ 3| pers., ecc.). Ma di questa fedeltà alla poesia, di questa tensione mai sopita a ricercare l'Uno nel Molteplice, gli piaceva, ancora a una distanza di tempo "biblica, riconoscere la paternità nell'influenza dei suoi amati poeti e artisti d'avanguardia. Quando, alle radici della sua formazione, era unito al gruppo di Majatovskij, Stravinskij, Chlebnikov, mentre l'Occidente viveva "l'ultima ora di calma universale" alla vigilia della prima guerra mondiale.



recensione di Montani, P., L'Indice 1987, n. 8

La chiave di lettura di questo bel libro, che raccoglie i "Retrospects" posti da Jakobson a conclusione dei sette grandi volumi dei suoi "Selected Writings" editi tra il 1962 e il 1985 (postumi gli ultimi due), sta in larga parte nel titolo, assai felice, con cui ci viene presentato: "Autoritratto di un linguista". È un titolo che volle lo stesso Jakobson, come ci fa sapere Luciana Stegagno-Picchio nella sua limpida e appassionata introduzione, e certo lo volle, a un mese appena dalla morte (l'idea del libro fu concepita nel giugno 1982), perché i suoi futuri lettori cominciassero a ricercare nell'impressionante estensione e perfino nell'eterogeneità dei temi affrontati nei "Selected Writings" la presenza di un gesto teorico unitario, di un'immagine che tutti li risolve in qualcosa di inconfondibile e caratterizzante: uno stile di ricerca o forse, meglio, un pensiero.
Che cosa sono i "Retrospects?" Sono, insieme, la storia della progressiva definizione - o addirittura della scoperta - di un territorio di indagine (la fonologia, la poetica, la filologia slava, la teoria del verso); un bilancio, di solito aperto a nuove suggestioni; un'occasione di polemica, spesso feroce. Ma sono, soprattutto, un luogo destinato a evidenziare le costanti e i nessi di un pensiero, o, per dirla con le parole più modeste dell'autore, "i temi preferiti" di un'intera ricerca. Così il senso di questo "autoritratto", che retroagisce in qualche misura su tutto il "corpus" dell'opera jakobsoniana dandogli lo statuto inatteso di un "libro" immenso ma coerente e compatto (è questo il suggerimento con cui Luciana Stegagno-Picchio conclude la sua introduzione) è da cogliere nel suo destino postumo e al tempo stesso inaugurale: si vede bene qui che una nuova fase di riflessione complessiva sul lavoro di Jakobson è oggi possibile e necessaria, e che in questa nuova fase noi siamo invitati a rintracciare i grandi principi di questo lavoro, a misurarci, insomma, non tanto o non solo con i numerosi specialismi di una linguistica ricca quant'altre mai di disseminazioni, ma anche e soprattutto col tratto non-specialistico che è tipico del pensiero che vi si manifesta e che sta a fondamento di quelle disseminazioni.
Quest'ultima osservazione potrà sulle prime suonare paradossale o addirittura irriguardosa, ma che le cose stiano così lo sapeva per primo lo stesso Jakobson che non avrebbe mai potuto identificarsi nella celebre parafrasi terenziana ("Linguista sum, nihili linguistici a me alienum puto") se avesse avuto in mente qualcosa di diverso da questa costitutiva indeterminabilità della materia (non degli "oggetti") con cui ha a che fare il linguista. E lo sanno benissimo anche gli specialisti: Jakobson non ci ha lasciato alcun paradigma complessivo da articolare produttivamente secondo le procedure di una "ricerca normale" (per usare la ben nota espressione di Kuhn), ci ha lasciato, come risulta assai bene dalla lettura di questo libro, un pensiero linguistico enormemente ricco di aperture conoscitive le più varie e perfino disparate, e tali tuttavia da raccogliersi sempre sotto qualcosa che ha intimamente a che fare col linguaggio pur senza mai congelarsi in una teoria linguistica in senso stretto, in un modello forte di che cosa sia il linguaggio o di come si debba studiarlo. In ciò la lezione di Jakobson si discosta abbastanza nettamente da quella degli altri maestri suoi contemporanei o immediati predecessori, responsabili di teorie forti - da Saussure a Chomsky, a Hjelmslev fino a Greimas - e si lascia comparare, piuttosto, con quella di un altro grande "disseminatore" di intelligenza linguistica, Emile Benveniste.
Ma quali sono i principi non-specialistici, le idee "regolative" che muovono la ricerca di Jakobson? Sotto questo profilo il libro offre una risposta del tutto esauriente, grazie anche ai requisiti di autobiografia teorica che caratterizzano in parte, come si è detto, la scrittura di questi saggi di volta in volta consuntivi. Si prenda, per esempio, il primo "Retrospect", dedicato ai problemi della fonologia: un testo che si rivolge indubbiamente innanzitutto agli specialisti. Eppure Jakobson non manca qui di indugiare sul racconto delle origini della sua ricerca sulle leggi strutturali dei sistemi fonologici, le quali origini coincidono con lo studio della poesia, in particolare la poesia dell'amatissimo Chlebnikov. È nella poesia, infatti, che il rapporto tra suono e senso diventa oggetto di una particolare attenzione, di una progettazione intenzionale: nella poesia, cioè, vengono messe a frutto ed evidenziate le leggi foniche che sono all'opera in modo inconsapevole negli usi ordinari del linguaggio. Ma il nesso tra poesia e fonologia, che in tal modo viene istituito e reso produttivo di conoscenze specifiche serve peraltro a mettere in luce un più generale e profondo criterio della ricerca che potrebbe suonare più o meno così: nulla, nel dominio del linguaggio, può essere descritto con modelli appropriati se si prescinde dalla condizione costante di un riferimento al senso. Solo che questa condizione, a sua volta, non può essere modellizzata come tale, perché essa non è nient'altro che un criterio di adeguatezza dei modelli "locali" via via sperimentabili. Un criterio che ci permette di discriminare tra procedure esplicative e procedure meramente descrittive o classificatorie.
Un discorso analogo si potrebbe fare per quanto riguarda gli altri grandi principi specifici che orientano il lavoro di Jakobson, che sono tutti assai ben documentati in questi saggi e che costituiscono, tra l'altro, l'oggetto esplicito di uno di essi: il rapporto tra invarianza e variazione; le relazioni tra spazio e tempo (con la polemica, più volte ripresa, contro ogni interpretazione riduttiva del concetto saussuriano di sincronia, che non è un concetto acronico, perché uno stato di lingua è sempre intessuto di temporalità); il criterio intenzionalistico e finalistico con cui è opportuno osservare, in generale, i fatti di linguaggio; il celebre e spesso frainteso carattere "binario" attribuito agli elementi che formano le strutture soggiacenti alle lingue.
Non c'è dubbio che tutti questi temi presentino evidenti o addirittura prioritarie connessioni con un modo di pensare di volta in volta filosofico o logico-epistemologico. Del resto, il debito della linguistica jakobsoniana nei confronti della tradizione logica e filosofica è qui espressamente discusso in un breve ma decisivo "Retrospect" ("Parola e linguaggio", scritto nel 1970), in cui gli interlocutori del linguista sono Hegel e Humboldt, Husserl e Brentano. È ben nota, infine, l'importanza che ebbe per gli sviluppi del lavoro linguistico maturo di Jakobson l'incontro col pensiero filosofico di Peirce. E tuttavia si sbaglierebbe a voler vedere in queste consonanze filosofiche qualcosa di diverso da una rete di possibili ascendenze colte a posteriori o comunque (come nel caso di Peirce) utilizzate con estrema libertà e nella piena consapevolezza di un'effettiva disparatezza d'orizzonte (valga come esempio, qui, la pagina, per altri versi commovente, in cui Jakobson si confessa al tempo stesso onorato e sorpreso per il conferimento, nel 1982, del premio Hegel). Il fatto è che Jakobson vuol parlare e vuol essere utilizzato e compreso come linguista; ma la cifra irriducibile, l'originalità potente che si impone in questo "Autoritratto" di Jakobson - appunto in quanto autoritratto di un linguista - sta poi proprio nell'impasto di tutte le diverse componenti - lo scienziato e il filosofo, lo sperimentatore legato agli artisti dell'avanguardia e l'epistemologo - che vanno a fondersi nella sua linguistica, e inoltre nella precisa sensazione che la vulcanica produttività di questa miscela abbia sempre a che fare con un che di letteralmente "indisciplinato", con una forza che si esercita di preferenza sui margini dei comparti disciplinari acquisiti non tanto per dilagare o invadere, quanto per creare zone di intersezione sempre più ampie.
E che cos'è, in fondo, la poetica di Jakobson - il più costante, forse, tra gli oggetti della sua ricerca, e certo il più assiduamente rivisitato in questo libro - se non uno straordinario esempio di tali intersezioni e, nonostante tutto, ancor oggi uno dei più felici? Qui Jakobson sa benissimo di aver spostato e risistemato i confini della linguistica e dell'estetica mostrando fino a che punto l'una avesse a che fare profondamente con l'altra, e in questo spazio nuovo sa di aver introdotto non solo un nuovo trattamento della grammatica, della semantica, della retorica (cioè altre intersezioni), ma anche di aver posto le basi per individuare sviluppi a partire magari proprio dai punti fragili della teoria o dalle sue lacune (valga per tutte la pertinenza della sintassi, poco o punto valorizzata da Jakobson, ma in ogni caso resa disponibile dalle sue analisi della poesia esattamente come una regione ancora da esplorare). Spostare i confini, disegnare intersezioni, mettere in comunicazione gli orizzonti di tutto ciò che attiene al linguaggio: ecco, forse, il gesto più originario, l'autentica specialità non-specialistica che tiene insieme i saggi di questo "Autoritratto" e identifica il pensiero linguistico di Jakobson. A ben guardare è una specialità che somiglia singolarmente al lavoro dei poeti, al loro "stare nel linguaggio" servendosi del linguaggio: del resto, chi non ha mai provato, leggendo certe cose di Jakobson, l'impressione, talvolta perfino imbarazzante, di una magica familiarità, di una coappartenenza inquietante tra lo studioso e il suo oggetto? La scoperta dell'atteggiamento riflessivo con cui il poeta si vota al linguaggio con una dedizione inaudita è stata la prima folgorazione del giovane Jakobson lettore e amico di Chlebnikov: oggi noi possiamo cominciare a misurare fino a che punto quell'esperienza inaugurale abbia lasciato sull'intera opera del linguista un'impronta inconfondibile.

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Roman Jakobson

(Mosca 1896 - Boston 1982) linguista russo naturalizzato statunitense. Fu membro dell’OPOJAZ, la società per lo studio della teoria della lingua poetica, fondata nel 1914, le cui ricerche diedero vita al formalismo critico. Sviluppando le intuizioni e gli spunti fondamentali della teoria formalista, negli anni Venti fu uno dei principali rappresentanti della «scuola di Praga», matrice dello strutturalismo europeo. Dal 1941 fu attivo in USA, dapprima all’università di Columbia, poi, dal 1948, a Harvard. La vasta opera di J., basata sull’individuazione della struttura bipolare del linguaggio e di ogni sistema semiologico, comprende fondamentali lavori teorici (Saggi di linguistica generale, in due raccolte, 1963 e 1974), saggi su aspetti particolari del linguaggio (Linguaggio infantile, afasia...

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