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Dettagli

1992
15 aprile 1992
1432 p.
9788815027528

Voce della critica


recensione di Benzoni, A., L'Indice 1993, n. 6

"Ich wirke zu wirken" "io opero per operare". Così Altiero Spinelli- riprendendo il mistico medievale Meister Eckart-rivendica con forza la dignità del proprio agire quotidiano. Non si tratta, beninteso, di un operare fine a se stesso: piuttosto del servizio costante, duro e faticoso a un progetto abbracciato in modo totale e iscritto definitivamente sul proprio orizzonte. Nella vita di Spinelli due grandi Progetti: prima il Comunismo, poi l'Europa. E una fase di passaggio straordinariamente facile, limpida, liberatoria, priva di interrogativi e di rimpianti come di rancorose vertenze postume con il "Dio che era fallito". La resa dei conti con il leninismo avverrà dunque in nome non del "vero socialismo" ma della religione della libertà: e l'idea di Europa sarà, a quel punto, il riferimento centrale della lotta contro gli stati nazionali che - come l'esperienza della prima metà del secolo aveva dimostrato - rappresentavano veicoli naturali di oppressione e di guerra.
Poniamo ancora mente a questo passaggio. Per il democratico Spinelli l'Europa, l'Europa federale, non è un ideale blandamente sostitutivo o compensativo rispetto al precedente ideale comunista. È piuttosto l'obiettivo, il punto di riferimento unico di tutta la sua esistenza politica. Per lo Spinelli che ha, per così dire, interiorizzato la dura, tragica lezione della 'realpolitik leniniana', questa stessa Europa non è un fine da sognare o da predicare, semmai un obiettivo da conquistare giorno per giorno avvalendosi, senza remore, di ogni possibile apporto, strumento o circostanza.
Il "Diario europeo" è appunto la cronistoria di questa battaglia ("battaglia" si: l'espressione non è troppo forte) quotidiana. Migliaia di pagine dedicate a logoranti confronti interni in questo o quel gruppo della galassia federalista, a incontri di lavoro con esperti e funzionari, defatiganti sedute di parlamenti e commissioni comunitarie; un vorticare di nomi dei quali quasi nulla è noto al lettore che non sia, lui stesso, un addetto ai lavori. Niente elenco di ritratti e appuntamenti storici predisposti con un occhio attento al Pubblico; piuttosto un continuo diario in corso d'opera, redatto per sè medesimo tra una tappa e l'altra del suo continuo peregrinare
Nulla dunque di piacevole e di amabile: più in generale nessun tentativo, nessuna disponibilità psicologica a captare l'interesse o la benevolenza di un lettore che non sia già acquisito all'idea.
Pure, un testo che affascina.
È, in primo luogo, l'immagine di una personalità: Spinelli non è nŠ un esploratore solitario n‚ un uomo dell'organizzazione. E, sia chiaro, l'Europa non cade dal cielo, n‚ è il frutto di processi automatici. Passa dunque attraverso il concorso concreto di singoli uomini; assieme alla percezione, costante e sempre rinnovata dei percorsi e delle circostanze da utilizzare. Ora, l'autore sta addosso alle persone e alle cose con inesausto accanimento. Pronto a cogliere i passi avanti compiuti. Ma, più spesso, a illuminare senza alcuna indulgenza chi, o che cosa, sia mancato alle attese. Così delusione e, più ancora, irritazione pervadono pagine su pagine. Ed è logico che sia così.
Per sua natura l'Europa, la prospettiva dell'Europa federale, è soggetta a essere il sogno, l'ideale incontaminato quanto improduttivo di molte anime belle, oppure la routine timorosa e conservatrice di tanti addetti ai lavori comunitari. Con l'autore del 'Manifesto di Ventotene' siamo invece su di un piano del tutto diverso. La sua Europa è il teatro della grande lotta politica contro gli stati sovrani. La sua tempra non è quella dell'idealista del politicante o del burocrate - il cui denominatore comune è quello della sterilità e dell'autocompiacimento - ma piuttosto quella del profeta e del costruttore del nuovo. Il suo universo è quello in cui campeggiano vita e morte, vittoria e sconfitta; un universo in cui si guarda alle cose con spietata lucidità e senza indulgenza per se o per gli altri.
Questa ascesi così poco italiana imprime al testo spinelliano una tensione, più o meno manifesta, ma costante.
E si traduce, di tanto in tanto, in ritratti psicologici e politici di straordinaria evidenza; e tanto più forti e severi perché si riferiscono ad amici e compagni di lotta, di volta in volta inadeguati, per ragioni diverse, di fronte al compito cui sono stati chiamati.
"Ti ho pesato e ti ho trovato impari". La scritta sul muro non è, come quella dell'Antico Testamento, il segno di una condanna definitiva, tutt'altro: è piuttosto l'espressione dei toni alti e seri di un'esistenza assorbita da un unico fine politico e dalla necessità di raggiungerlo e, nel contempo, pervasa dall'acuta consapevolezza dei limiti, sempre più stretti, posti dalle proprie forze, dal tempo a disposizione, dalla pigra coscienza e dalla, spesso, cattiva volontà del mondo esterno.
Spinelli sa guardare alla vita e alla morte con dolore socratico: gli anni del grande rilancio del suo ruolo politico in Europa saranno anche quelli della morte dolorosa e prematura della figlia Diana e della sua sorella Eva Colorni; gli anni in cui la compagna unica della sua vita, Ursula, sarà colpita da ictus.
E il bilancio politico complessivo? Il leader federalista pone, ogni volta, l'asticella molto in alto. Per lui il successo - che è l'unica giustificazione del suo operare - non può essere n‚ l'affermazione di una coscienza europea, n‚ una positiva intesa tra stati e nemmeno la fissazione di processi e di scadenze sulla via dell'integrazione. Così nel suo "Diario" troviamo solo riferimenti sporadici e, nel caso, negativi alle tappe in cui si è andata complessivamente organizzando l'Europa che concretamente conosciamo: dai trattati. di Roma all'Atto Unico. Nel suo schema concettuale, al cuore della sua iniziativa politica, vi è l'immagine di un'Europa vista non tanto come superamento, quanto come contrasto, rottura, totale incompatibilità con l'universo degli stati nazionali sovrani. Ora l'europeismo di Spinelli non nascg tanto a partire dall'adesione a questo o a quel tipo d'Europa, insomma a questo o a quel modello di società futura; nasce a partire dal rifiuto del modello nazionale, visto come fattore automatico di illibertà, di disordine politico ed economico e, in definitiva, di sempre nuovi conflitti. Conseguentemente il passaggio tra "Europa nazionale" ed "Europa federale" potrà sì comportare diversi percorsi strategici o aggiustamenti tattici; ma si risolverà sempre in una rottura, in una soluzione di continuità; nel senso che si potrà veramente parlare di successo solo quando il processo verso l'unità federale sarà libero e privo di ostacoli e quando i difensori degli stati sovrani saranno stati sconfitti e definitivamente neutralizzati.
Ora, in base a questi parametri, il bilancio di Spinelli è un bilancio di sconfitte. Come egli stesso non manca, a ogni tappa della sua grande sfida, di constatare dolorosamente.
A ogni tappa. Infatti chi, come Spinelli, ha metabolizzato il realismo politico della sua passata esperienza comunista, si rende conto perfettamente che il problema non è quello di sognare l'Europa o magari di proclamarne l'inevitabilità storica; ma è piuttosto quello di realizzarla attraverso uno scontro politico in cui mutano continuamente nel tempo amici, avversari, occasioni, ostacoli.
Perciò il leader federalista userà ogni possibilità. L'europeismo atlantico dei grandi leader democristiani (De Gasperi, Schuman, Adenaner) del dopoguerra. La contestazione del "popolo europeo" contro il nazionalismo, in particolare di marca gollista. Il nuovo internazionalismo democratico nato con Kennedy e la distensione. E poi, negli anni settanta e ottanta, la volontà di autoaffermazione in senso federale della commissione e del parlamento di Strasburgo e, nel nostro paese, la nuova apertura europea del Pci di Berlinguer.
1944-54, l'Europa politica. 1954-69, l'Europa popolare e democratica. 1970-86, l'Europa istituzionale. In poco più di quarant'anni una lucidissima capacità di definire strategie e punti di appoggio corrispondenti alla necessità dei tempi. Una serie di percorsi che, anche all'osservatore esterno, appaiono senza significativi errori. Pure l'obiettivo federale rimane lontano, con una sola eccezione, per l'insufficienza e la debolezza delle forze messe in campo.
Ed è forse proprio quella lontana eccezione a chiarirci, di riflesso, le ragioni delle difficoltà di fondo che l'europeismo politico non ha sinora potuto oggettivamente superare.
Commentando, nel marzo'53, le notizie sulla morte di Stalin, Spinelli constatava lucidamente che la scomparsa del dittatore avrebbe comportato il venir meno delle spinte all'unificazione politica e militare. In altre parole, molla dell'unità era la paura; e, dunque, finita o grandemente attenuata questa, si sarebbe grandemente ridotta la spinta alla rimessa in discussione dello stato nazionale.
Ed è quello che poi è accaduto. Da allora la causa federalista non ha più visto lottare, in primo piano, i governi; mentre le altre forze messe in campo, tra "movimento" e istituzioni, si sono tutte rivelate inadeguate.
Di più, la stessa via spinelliana all'Europa è stata rimessa in discussione. Essa partiva dalla contestazione radicale del modello di stato nazionale; e presupponeva, in ogni caso, un salto di qualità, una rottura sul piano politico-istituzionale (la Costituente; un nuovo trattato federale). Dalla metà degli anni cinquanta in poi il processo è stato invece governato dai fautori di un'integrazione funzionale e indolore, basata su di un compromesso "storico" (e cioè di lungo periodo) tra Europa e stati nazionali. Allora evoluzione e non rivoluzione; consenso e non rottura; e, anche in virtù di questo, economia e non politica.
"Così, però, non si è fatta l'Europa", avrebbe costantemente obiettato l'autore del 'Manifesto di Ventotene'.
"Si è fatta l'Europa possibile", avrebbero potuto rispondere gli altri. Un dialogo tra sordi e senza sbocchi. Fino a quella primavera del l986 in cui Altiero Spinelli, provato dall'ennesima sconfitta, consapevole che le forze e la vita stessa gli venivano meno, pensava oramai di dedicare il tempo a sua disposizione più alla riflessione e alla memoria che all'operare politico. Spinelli stesso si rendeva perfettamente conto che i suoi progetti europei erano franati di volta in volta, non per l'opposizione altrui, ma per l'interna inconsistenza della loro forza propulsiva. Gli altri, i politici realisti non potevano, dal canto loro, non avvertire l'incompiutezza della loro costruzione: la loro Europa era oggettivamente l'unica possibile; ma, particolare forse non marginale, non era ancora l'Europa.
Oggi, il confronto sarebbe molto diverso e la voce di Spinelli risuonerebbe più alta e più forte.
Infatti è caduto il muro: e con esso il grande velo che ha reso, per decenni, la discussione sull'Europa così blanda e accademica, così poco spinelliana.
Prima tutto sembrava in qualche modo compatibile perché tutto era sostanzialmente irrilevante. C'erano gli stati; e la Comunità; e la Nato; e gli Stati Uniti che gestivano la politica estera e sovraintendevano all'unità interna e alla disciplina nei comportamenti.
Oggi il crollo del sistema dei blocchi rilancia l'agibilità politica e manifesta conseguentemente tutta la pericolosità del sistema degli stati sovrani; mentre l'ipotesi politica europea appare, contestualmente, assai più necessaria e assai meno scontata di prima.
L'Europa, dunque, come terreno di scontro. A partire dalla radicale rimessa in discussione (e non del lento e "pattato" superamento) dello statonazione. E come supporto reale della democrazia nel mondo. Proprio come pensava Altiero Spinelli. Sarebbe finalmente la sua battaglia. Non è più con noi per condurla. Possiamo però sentire con chiarezza la sua voce: che si tratti di Europa dell'est o di Bosnia; di apertura al Terzo Mondo o di politica agricola; di difesa comune o di immigrazione E abbiamo un grande bisogno di lui.

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