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recensione di Foa, R., L'Indice 1993, n. 1
Ci sono molti modi di leggere un libro autobiografico. Vi si può, ad esempio, cercare la testimonianza individuale. Si può cedere alla curiosità di scoprire o di ripercorrere il passato attraverso gli occhi di un protagonista. Ci si può aspettare anche un semplice racconto. Oppure lo si può affrontare con un atteggiamento - come dire? - di più attiva ricerca, anche per capire meglio i passaggi dell'attualità. Forse questa è la spiegazione del grande flusso di memorialistica che in questo periodo arriva nelle librerie: sono soprattutto politici, giornalisti, quasi tutti della generazione che ha fondato la Repubblica, i quali cercano di rispondere alle infinite domande che si pongono nella fase di grandi turbamenti, che stiamo attraversando. Cosa aspettarci allora da Antonio Giolitti? Innanzitutto è lui a darci subito una prima spiegazione. In queste riflessioni ha scelto di comunicare direttamente con i nipoti - Marta infatti è la nipote che l'ha sollecitato a scrivere le memorie - fondamentalmente per mettere nero su bianco "una ricerca e una verifica delle circostanze e dei motivi che hanno sospinto uno come me e forse tanti altri miei simili all'impegno nella politica, e a perseverarvi". Così è subito dichiarato l'intento di spiegare cosa è stata la politica per un uomo come lui, che oggi vede giunto al punto di massima crisi quasi tutto ciò per cui si è impegnato come partigiano, come intellettuale, come dirigente del Pci prima e del Psi poi, come ministro italiano e commissario della Cee. Ma è anche dichiarato, insieme, l'intento di spiegare, attraverso "ricordi e riflessioni" su alcuni passaggi del suo impegno politico, perché dopo aver raggiunto il massimo della sua crisi, il cammino può in realtà riprendere.
Ecco, se c'è una domanda precisa che si può porre a Giolitti, nella "Lettera a Marta" si trova la risposta. La domanda è questa: perché la sinistra in Italia non ha mai governato in quanto tale? Cioè con un suo programma, con una sua carica trasformatrice, lasciando un suo segno nel paese? Se non ci è riuscita in passato, quando ha raggiunto una grande forza elettorale e una non meno grande influenza culturale, come potrà farcela dopo il tracollo seguito al 1989? Si tratta di una domanda semplice, che non si pone oggi per la prima volta, ma che adesso ha una valenza particolare e, soprattutto, può avere risposte convincenti, perché mai come ora la sinistra è stata così lacerata, incerta e lontana dalla stessa possibilità di assumere una funzione dirigente in Italia. E Giolitti è una delle figure capaci di dare una risposta convincente. Per una ragione semplicissima: ha la credibilità che gli deriva dall'essere stato uno dei pochissimi "uomini di governo" che la sinistra italiana abbia avuto.
E allora se la chiave di lettura di questo libro sta in quella domanda e in quella risposta, direi che siano fondamentalmente tre i punti di maggiore interesse, anche se non hanno un fascino minore altre pagine, a cominciare ovviamente dal racconto dell'infanzia, con sullo sfondo il nonno Giovanni, e della formazione politica e culturale con l'approdo alla Resistenza e al partito comunista di Togliatti. Il primo di questi punti è costituito ovviamente dall'"indimenticabile 1956" e dalla divaricazione di percorso tra il Pci e Antonio Giolitti. Su cosa abbia significato per la sinistre occidentale la doccia scozzese costituita dalla contraddittoria sequenza XX congresso del Pcus - intervento in Ungheria la discussione c'è già stata, e stata molto approfondita e, oltretutto, sono anche noti i documenti delle discussioni che investirono il gruppo dirigente di Botteghe Oscure. Ma nel racconto che oggi Giolitti fa c'è in ogni modo qualcosa in più. È infatti il racconto della contraddizione tra la particolarità del Pci, la sua "funzione nazionale", il suo essere qualcosa di molto anomalo nel campo del comunismo mondiale e l'automatismo della scelta ideologica e politica che fu compiuta nel 1956. Straordinario resta il fatto che, proprio mentre con la repressione dei moti operai di Poznan stava iniziando il ciclo che avrebbe portato al disastro ungherese, nel parlamento italiano i due blocchi contrapposti, quello centrista e quello socialcomunista, avrebbero votato insieme una legge di interesse strategico, quella sugli idrocarburi, cioè sulla politica energetica. Il ricordo di questo fatto, di cui Giolitti fu attivo protagonista, è collocato quasi a premessa del capitolo sul "passaggio a Occidente", cioè il racconto dei mesi che vanno dall'autunno del 1956 all'estate del 1957, quando con l'uscita dal Pci venne sanzionato il fatto che l'occasione offerta allora dalla storia era stata lasciata cadere dalla principale forza della sinistra italiana.
Lontani come siamo da allora, oggi sono già state date molte risposte sulla possibilità realmente offerta da quell'occasione, sul fatto cioè che davanti al dissenso non solo di Giolitti, non solo dell'area culturale della sinistra, ma anche del leader della Cgil Di Vittorio, la netta chiusura di Togliatti e del gruppo dirigente del Pci non fosse un percorso politicamente obbligato nemmeno in un mondo diviso in lue blocchi, nemmeno in un'Italia che stava completando la ricostruzione e che era alla vigilia del miracolo economico. Fu un percorso obbligato se però lo si esamina sotto il profilo di quella che era la contraddizione culturale della maggior parte della sinistra italiana. Giolitti ne parla, descrivendo l'intento di conciliare non tanto le due scelte di campo (la "doppiezza" togliattiana) quanto piuttosto le due prospettive, quella cioè di un impegno democratico e riformatore di lungo periodo e quella del passaggio, necessariamente rivoluzionario nella sostanza se non nella forma dal capitalismo al socialismo, cioè il raggiungimento della meta. Era, per così dire, un'altra sorta di doppiezza: non dettata da circostanze ed esigenze storico-politiche... ma derivante da radici culturali, da un tentativo di versione aggiornata del marxismo, a riparo dall'accusa di riformismo per definizione rinunciatario, il riformismo delle microriforme". È molto utile questo giudizio, perché è soprattutto in questa doppiezza che si consuma la storia della divisione e della debolezza programmatica e quindi di governo della sinistra italiana nel dopoguerra, fino a tutto il decennio scorso. Debolezza quindi, non solo della sinistra comunista, ma anche di quella riformista che si confonde tuttavia anche con quella che si è richiamata al riformismo per trovarvi un'identità ma senza per questo trovare un alimento sostanziale per lasciare il suo segno nella società italiana.
C'è tutto intero questo sfondo nell'altro punto della riflessione, quello sugli anni del centro-sinistra. Sono i capitoli che - sul piano puramente della curiosità storica - appaiono i più interessanti in questa "Lettera a Marta", per le sequenze offerte, anche attraverso brani del diario che l'autore teneva occasionalmente. Ma, sul piano della riflessione, che è poi il vero filo conduttore di questo libro, è evidente la continuità con le valutazioni che riguardano il 1956. Perché è in fondo il mancato segno riformatore all'esperienza del centro-sinistra a costituire la seconda grande occasione che ha perso in Italia la sinistra, nel suo insieme. Antonio Giolitti, come noto, fu uno dei principali protagonisti della nascita dell'esperienza di centro-sinistra e fu uno dei pochi a dare a quell'esperienza un segno riformatore, non solo in quanto ministro del Bilancio e della programmazione, ma in quanto ideatore di un programma. Non a caso egli fu una delle prime vittime politiche dello scontro che subito si accese e che molto rapidamente evitò che quell'esperienza potesse segnare il putito di partenza di un percorso diverso da quello del conflitto-incontro fra Dc e Pci in Italia. Fu cioè l'impossibilità non tanto di affermare, quanto solo di far affacciare e di far in qualche modo pesare sul terreno del confronto tra i partiti, soprattutto fra i tre maggiori partiti, una visione politica e culturale riformista. Ecco, questo è sostanzialmente il filo della riflessione di Giolitti ed è un filo pienamente coerente con le scelte dell'uomo politico.
Perché in fondo, oltre ad essere stato uno dei pochi uomini di governo della sinistra, Antonio Giolitti è stato uno dei pochi politici che abbia saputo conciliare la sua iniziativa politica con la sua riflessione. È una coerenza che ha reso unica la sua esperienza in questo mezzo secolo di storia italiana. Questa "Lettera a Marta" è appunto la storia di questa coerenza, con un messaggio per il futuro che non è solo quello delle "speranze salvate". Ma è soprattutto quello di una suggestione importante centrata sull'esigenza della ricostruzione di "una cultura della sinistra", che è un "impegno di lungo periodo, a tre dimensioni: italiana, europea, mondiale". Che poi potrebbe essere lo sbocco realistico di un riformismo possibile.
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