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Beffe, scienziati e stregoni. La scienza oltre realismo e relativismo - Gabriele Lolli - copertina
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Descrizione


Gabriele Lolli ha voluto esaminare in questo libro lo "status quaestionis" della filosofia della scienza, un campo che pare oggi dilaniato da un'autentica guerra scatenata dai "relativisti", o "postmodernisti", contro gli assunti realisti. Traccia dunque un panorama sintetico dell'epistemologia contemporanea indirizzato però, con spirito polemico, a spiegare come si sia potuti arrivare a certe degenerazioni delle posizioni relativiste odierne, tali per cui un articolo pieno di sciocchezze, scritto per beffa dal fisico Sokal, ha potuto esser preso per buono.
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Dettagli

1998
13 novembre 1998
204 p.
9788815067203

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maurizio codogno
Recensioni: 3/5

Questa volta (beh, in realtà questo libro è stato scritto tra i suoi primi) Lolli si occupa non di logica matematica ma di filosofia della scienza; più precisamente delle teorie del ventesimo secolo su come si forma il progresso delle teorie scientifiche. I primi capitoli, che dovrebbero dare un'idea del contesto, sono ad ogni modo assolutamente incomprensibili per uno che come me arriva al massimo a ricordarsi di Platone ed Aristotele. Paradossalmente la critica puntuale risulta invece più chiara, anche se la <em>pars construens</em> mi pare mancare; ma non si può pretendere tutto dalla vita.

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Voce della critica


recensioni di Vineis, P. L'Indice del 1999, n. 03

Parafrasando la celebre frase di Dostoevskij, si potrebbe dire che per molti scienziati "Se il fatto non c'è, tutto è permesso". La progressiva scomparsa dei "fatti" dall'orizzonte della filosofia della scienza dell'ultimo secolo ha indotto reazioni preoccupate (come in questo libro di Lolli) o stizzite da parte di molti scienziati. La scomparsa dei fatti, come documenta analiticamente Lolli, è avvenuta seguendo due filoni, l'uno filosofico e l'altro sociologico (in realtà variamente intrecciati fra loro). Il filone filosofico di critica della scienza può essere ricondotto alla cosiddetta "svolta linguistica" inaugurata da Wittgenstein, alla rinuncia cioè a trovare il significato delle proposizioni protocollari in una corrispondenza univoca con i fatti, per sottolineare invece il radicamento del significato nell'uso del linguaggio e nelle "forme di vita". La relativa cripticità del Wittgenstein delle Ricerche filosofiche ha dato origine a una molteplicità di interpretazioni, non tutte plausibili. Al secondo Wittgenstein va comunque fatta risalire una delle radici della filosofia della scienza post-analitica, quella, per intendersi, di Kuhn e di Feyerabend. Un'altra radice è di natura storica; Kuhn, in particolare, fu molto influenzato da una singolare e interessante figura di storico della medicina, Ludwik Fleck.

Il secondo filone di critica della scienza è sociologico, e deriva abbastanza naturalmente dal primo: se il significato delle proposizioni scientifiche non è dato dal confronto con fatti esterni, ma dall'uso concreto in una comunità linguistica, studiare la logica della scienza diviene studiare comportamenti e relazioni interne delle comunità scientifiche. Il filone sociologico ha raggiunto probabilmente la sua massima espressione con Bruno Latour (cfr., a pagina 28 di questo numero, la recensione all'edizione italiana del famoso Science in action). Latour ha passato alcuni anni in laboratori di fisiologia, comportandosi come un antropologo "tra i selvaggi", cioè supponendo di osservare una comunità che si avvale di simbolismi e regole linguistiche a lui sconosciute.

Lolli riassume, in un modo talora un po' criptico, le posizioni dei principali esponenti dei due filoni. Nel suo riassunto non nasconde una certa irritazione verso quelle che ritiene operazioni nichiliste, superficiali e talora un po' fanfarone. Non si può negare che in taluni casi la sua irritazione sia giustificata: non tutti gli scritti di Latour, per esempio, sono limpidi e onesti, mentre Feyerabend si divertiva a lanciare provocazioni. Tuttavia, mi sento di rimproverare a Lolli due atteggiamenti. Il primo è di sbarazzarsi un po' troppo frettolosamente di alcuni autori - come Wittgenstein - e di alcuni temi - come il rapporto tra fatti e teoria. Wittgenstein viene liquidato, tra pagina 145 e pagina 151, con l'epiteto di "Dr. Jekyll e Mr. Hyde" (per via della sua doppia personalità: ispiratore del neo-positivismo prima e del nichilismo post-modernista poi): ma non sarà il nostro secolo, e la scienza da esso espressa, a manifestare nei fatti questa doppiezza, da Wittgenstein incarnata in modi anche drammatici? Può darsi, come sostiene Lolli, che Wittgenstein abbia torto sulla logica e che non abbia capito il teorema di Gödel. Tuttavia dalle pagine di Lolli non si comprende esattamente né perché abbia torto né che cosa possa sostituirsi ai suoi errori.

Il secondo aspetto che mi sento di contestare a Lolli è il fatto di passare sotto silenzio che molti degli autori da egli accomunati nella critica del post-modernismo relativista avevano una conoscenza talora approfondita di alcune pratiche scientifiche: Wittgenstein da giovane era un ingegnere aeronautico, e aveva anche partecipato ad alcune attività di ricerca medica a Newcastle; Feyerabend aveva studiato fisica e astronomia; Latour ha passato anni nei laboratori (seppure da antropologo). Dalla superficialità o astrattezza di alcune loro affermazioni non è lecito ricavare un'immagine di studiosi dilettanteschi della scienza.

Una delle tesi di fondo di Lolli è che i critici della scienza si avvalgono troppo spesso di un discorso obliquo anziché descrivere direttamente che cosa è la scienza: "non sarebbe meglio ascoltare direttamente cosa dice la scienza?". Qui i casi sono due: o la critica della scienza si basa su un "sentito dire", su conoscenze riportate e approssimative - ma non credo che questo possa essere attribuito per esempio a Kuhn. Oppure si postula l'esistenza di un linguaggio universale che consente non solo alla comunità degli esperti, ma anche ai filosofi, ai sociologi e, più in generale, ai non addetti ai lavori, di avvicinarsi direttamente e correttamente a ciò che dice la scienza. In effetti, uno dei bersagli polemici maggiori di Lolli sono le traduzioni: "quando si dice che cosa dice la scienza, si pretende di fare una traduzione in un linguaggio comprensibile". Ma fare traduzioni mi pare inevitabile: io stesso, nella mia attività di ricerca, devo comprendere in modo approssimato e indiretto (tradotto) linguaggi di altre discipline scientifiche. La struttura del Dna è stata scoperta dalla collaborazione tra biologi, fisici e chimici: come potevano intendersi in assenza di traduzioni? Ciò che risulta dall'osservazione di una lastra da parte di un radiologo non è una descrizione, ma una thick description: questa implica il riferimento a concetti fisici sulla radio opacità dei diversi tessuti, cioè una entrance knowledge, una conoscenza complessa a priori che fa essa stessa parte integrante dell'osservazione (e infatti il profano concorda con l'interpretazione solamente se il medico, nel mostrare le "macchie sulla lastra", gli trasmette al contempo l'entrance knowledge). Può darsi, come sostiene Lolli, che il linguaggio unificante della scienza sia la matematica, e che questo riferimento forte ci salvi dalle traduzioni e dalle approssimazioni dei sociologi; questo io non sono in grado di valutarlo, anche se mi pare che in scienze come la biologia e la medicina l'applicazione della matematica sia abbastanza marginale rispetto a teorie complesse come la teoria dell'evoluzione o quella dell'omeostasi.

Per tornare alla domanda da cui siamo partiti, è proprio vero che se non ci sono i fatti tutto è permesso? Il libro di Lolli inizia con il raccontare la famosa beffa di Sokal, un fisico che si è fatto gioco della comunità dei sociologi scrivendo un falso articolo in linguaggio post-modernista che una nota rivista di social studies gli ha pubblicato. L'articolo era pieno di errori marchiani in campo scientifico, che non sono stati riconosciuti dal comitato editoriale. Viene da chiedersi se un sociologo non potrebbe egualmente beffare gli scienziati naturali, scimmiottando il loro linguaggio e sostenendo tesi assurde (mi chiedo anzi se questo non si sia già verificato). Quello che dimostra la beffa di Sokal non è il fatto che il discorso obliquo post-modernista tende a sostituirsi al discorso diretto, ma, al contrario, che le traduzioni di cui disponiamo sono ancora imperfette e suscettibili di gravi incomprensioni. L'obiettivo non mi pare quello estremo e un po' ingenuo di abolire le traduzioni ma, casomai, di affinarle. Una soluzione elegante alla "scomparsa dei fatti" è quella suggerita da Devitt a proposito della incommensurabilità delle teorie: le teorie continuano a essere commensurabili e confrontabili (contrariamente a quanto sostenuto da Feyerabend) non perché le ancoriamo ai fatti, ma attraverso una "permanenza parziale" degli oggetti. La continuità del riferimento empirico da una teoria all'altra non è una questione "tutto o niente", ma piuttosto di parziale traduzione: gli oggetti designati nella teoria della relatività non sono esattamente gli stessi della fisica classica, ma sono a essi riconducibili in modo esatto nonostante la traduzione.

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