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La sinistra italiana, nel corso del XX secolo, si è disposta lungo almeno tre fondamentali direttrici. Essa ha infatti assunto caratteri riformisti, rivoluzionari e riformatori, che non si sono tuttavia incarnati in distinti partiti politici, ma hanno attraversato le stesse formazioni nelle quali la sinistra si è materializzata: sia le forze tradizionali, tali perché sedimentatesi nel tempo, sia quelle più effimere, almeno per durata, anche se non per elaborazione teorica e politica.
La biografia di Giuseppe Di Vittorio, il principale leader sindacale del Novecento, scritta da Carioti per la collana diretta da Galli della Loggia sull'identità italiana, è istruttiva circa questo carattere peculiare, che in genere viene semplificato, e ridotto, anche per ragioni inerenti all'attualità politica, a una dicotomia costretta entro i due principali partiti della sinistra, il Psi, nelle sue molteplici forme, e il Pci.
A una simile bipartizione pare del resto rendere omaggio Carioti, ma la sua indecisione semantica, rintracciabile nell'uso dei termini riformatore e riformista come sinonimi, appare in realtà una spia della sua consapevolezza di una realtà più variegata e ricca. Di Vittorio non fu né riformista né rivoluzionario, ma, così è come tratteggiato da Carioti, appare percorrere un lungo e travagliato cammino, che negli anni della maturità e della maggiori responsabilità politiche e sindacali assunse un inconfondibile tratto appunto "riformatore". Forse è anche per questo che "prima e dopo la sua scomparsa, l'elemento simbolico ha prevalso su ogni altro aspetto". Fu, quello di Di Vittorio, un approdo sofferto, frutto di una drammatica esperienza esistenziale ancor prima che politica. L'orfano che conobbe la miseria e sperimentò le drammatiche condizioni di vita e di lavoro dei braccianti della Capitanata (stimolo fondamentale nel suo divenire organizzatore sindacale), ma anche l'umiliante esclusione dei lavoratori dalla nazione (e non a caso egli combatté nella Grande guerra), divenne il dirigente che, negli anni più aspri della guerra fredda, all'obesità programmatica del Pci oppose la concretezza di un disegno riformatore manifestatosi negli intenti del Piano del lavoro.
Carioti conclude la biografia con il ricordo del "Mondo", della rivista cioè più rappresentativa dell'anticomunismo democratico: "Il fanatismo e lo schematismo ideologico non erano mai riusciti a soffocare la impronta liberale del suo socialismo vissuto". Era un giudizio felice, al di là dei termini utilizzati, proprio perché coglieva la preoccupazione generale di Di Vittorio, la scommessa sull'esistenza di una sinistra capace di plasmare di sé il paese, di trasformarlo in modo sostanziale e duraturo, adempiendo in tal modo al fine, che dovrebbe essere proprio di essa, dell'acquisizione di una piena cittadinanza degli oppressi. Capace di apprendere dagli errori, come avvenne dopo la sconfitta della Cgil nel 1955, nel "terribile 1956" fu il solo, tra i massimi dirigenti comunisti, a cogliere, hic et nunc, la lacerazione decisiva apportata dalle rivolte operaie in Polonia e in Ungheria al modello sovietico.
Da questo punto di vista, sarebbe stato proficuo approfondire le ragioni della sua adesione al Pci. Certo, come scrive Carioti, anche per Di Vittorio fu rilevante, di fronte alla nascente dittatura, la solidità dei comunisti rispetto alle altre forze antifasciste, a riprova, ancora una volta, del necessario rovesciamento, in particolare nel caso italiano, dello schema interpretativo di Nolte. Ma non fu semplicemente il fascismo a irrobustire i comunisti. Vi era qualcosa di più profondo e una traccia in questo senso, forse, nel caso di Di Vittorio si sarebbe potuta rintracciare nell'influenza dell'evangelismo paterno.
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