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Avishai Margalit è figura nota a chi si cimenta in studi filosofici. In lingua italiana il suo volume più significativo, La società decente (Guerini e Associati, 1998), è quello che ha raccolto la minore eco tra il pubblico. Più conosciuto per i suoi ritratti gerosolomitani raccolti in Volti d'Israele (Carocci, 2000), ora ci è offerto alla lettura nell'esercizio della sua disciplina, di cui fa un uso applicativo, reputandosi un filosofo "per esempio", impegnato nella chiarificazione più che nella enunciazione dottrinale. Il quesito di fondo verte intorno all'esistenza o meno di un'etica della memoria. Il richiamo all'attualità è evidente, laddove l'impellenza del ricordo sembra fare il paio con il difetto di storia che connota la nostra contemporaneità. Ma l'autore sposta il tiro verso un fuoco più circoscritto, concentrandosi sul problema della costruzione morale degli individui e delle comunità attraverso l'uso del ricordo. Da questa premessa la sua riflessione spazia sulla memoria come dovere e come diritto, sulla dinamica sofferta tra ricordi e oblio, sulla natura del soggetto, singolare e plurale, che deve rammentare. La conclusione è che "sebbene si dia un'etica della memoria, nella memoria c'è ben poca moralità". In altre parole, se la memoria è una degli attributi del porsi in relazione con ciò che ci circonda, essa ha fondamento nei legami "spessi", quelli costituiti da appartenenze strette e solide, fondate sulla reciprocità. Ben diverso è invece il discorso che riguarda la morale pubblica, dove prevalgono lealtà e identificazioni assai più fragili. Margalit ci fa quindi presente che "la memoria è conoscenza che viene dal passato, non è necessariamente conoscenza sul passato". L'equivocare su queste due diverse funzioni vuol dire fraintenderne la sua fruizione per il tempo a venire.
Claudio Vercelli
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