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Anticipata dal censimento, prima degli studenti stranieri, poi di quelli ebrei irregolarmente iscritti alle università, la legislazione razziale fu imposta in Italia con una risolutezza che nulla ebbe a invidiare alla Germania nazista. Per oltre cinquant'anni, sui rapporti del mondo accademico con l'antisemitismo si è largamente taciuto e di questo silenzio sono stati complici sia le istituzioni sia gli stessi docenti che, a partire da Luigi Russo, tesero ad avallare l'immagine di una sostanziale estraneità dell'alta cultura a certe infamie. Come dimostra il caso dell'Università di Pisa, indagato da Francesca Pelini nella tesi di laurea, ora ampliata e aggiornata, per la prematura scomparsa della studiosa, da Ilaria Pavan, la politica razziale del regime colpì tanto studenti, quanto professori ebrei, che, per salvarsi, ricorsero all'emigrazione o a strategie quali la negazione dell'identità semitica. Passata la bufera del 1938-1939, l'Università di Pisa, grazie al rettore D'Achiardi, che oppose resistenza passiva alle disposizioni emanate dal ministero dell'Educazione nazionale, non diede particolare spazio a tematiche razziste nella didattica o nell'assegnazione delle tesi. Allo stesso modo i Guf, se si mostrarono assai politicizzati alla base, ai vertici mantennero un certo distacco, segno che un margine fra adesione partecipata e semplice adeguamento alle regole imposte era ancora minimamente possibile. Nel secondo dopoguerra, le tre commissioni epurative vennero via via stemperando la radicalità dei propri intenti, fino a trasformarli in un nulla di fatto, con il paradosso di vedere seduti, fra gli epuratori, convinti ex razzisti quali Funaioli, e restituito il posto, in alcuni casi nominalmente, a solo cinque dei venti docenti ebrei cacciati.
Alessia Pedìo
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