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Girolamo (Gilmo) Arnaldi, uno dei maestri della nostra medievistica, ha lasciato il segno in una quantità di campi, dall'Italia altomedievale alla storia del papato, dalla cronachistica alle origini delle università, fino alla cultura dell'età di Dante e ad altro ancora. Qui riunisce una cinquantina di articoli di storia della storiografia e di discussione storiografica usciti dal 1956 in avanti, mentre si sa che altri volumi tematici sono in allestimento. Saranno, come questa raccolta, l'occasione per ripercorrere saggi che in molti casi sono diventati classici. È inevitabile: a questi livelli e con una tale mole di attività succede di entrare a far parte del canone, e credo che Arnaldi stesso ne sorriderebbe, lui che in molte pagine si dimostra capace di ironia garbata.
È impossibile dare un resoconto completo del libro, ma, senza voler cercare ad ogni costo le chiavi di lettura che spiegano tutto, dai contributi raccolti vengono fuori chiaramente alcuni punti di un discorso sul metodo e sulla medievistica. Innanzitutto l'associazione di storia e storiografia. Colpisce che il saggio di apertura, Europa medievale e medioevo italiano, del 1956, sia una grande rassegna di studi dovuta a uno storico allora molto giovane che pubblicava in quegli anni le sue prime prove di ricerca, e a queste subito univa appunto l'indagine storiografica, secondo una scelta da cui non si sarebbe più discostato. Prendiamo come riprova, a distanza di molto tempo, il saggio su Giorgio Falco, nato come voce per il Dizionario biografico degli Italiani e ora presentato nella versione uscita in rivista nel 1994. Di Falco Arnaldi parla in molti luoghi, ma questo contributo rappresenta l'occasione per affrontare con ampiezza anzitutto, e certo non solamente, il complesso rapporto che nell'insieme dell'opera falchiana lega La polemica sul medioevo a La Santa Romana Repubblica, cioè il rapporto fra storia della storiografia e ricostruzione storica. C'è in questo, dietro Arnaldi, una lezione crociana riconosciuta in tutta serenità, come di chi sa di non appartenere alla "grande schiera dei superatori professionali di Benedetto Croce" (parole sue del 1963). Ma a questo si accompagna un atteggiamento disponibile, che ha contribuito a conservare nella medievistica italiana, anche presso studiosi che non possono dirsi crociani, una tradizione di storia della storiografia.
Secondo punto, stringere lo studio intorno a problemi, a poli di organizzazione del giudizio. Quale è davvero, si domanda sempre Arnaldi, il cuore del discorso di un certo storico o di una certa opera? Se ne potrebbero fare molti esempi, quasi a caso: parlare di Walter Goetz solleva la questione della pensabilità/possibilità di una storia universale; l'opera di Claudio Sánchez-Albornoz e la sua polemica con Américo Castro vertono intorno ai limiti precisi da attribuire ai condizionamenti secolari subiti dalla storia spagnola; Bloch è letto soprattutto nella prospettiva di due problemi storici, quello della comparazione e quello della prevedibilità; la suite su Chabod batte sul tema dell'inaridimento dei ceti dirigenti fra Due e Trecento, sul loro distacco dalle dinamiche sociali e sul loro ridursi a "casta speciale". Dello stesso Gioacchino Volpe (a cui non è dedicato un contributo specifico ma che spesso è ricordato con un giusto riconoscimento di grandezza) si pongono in rilievo sia talune pagine sull'"incipiente coscienza unitaria" a partire dal Mille, sia soprattutto l'articolo su Lambardi e Romani del 1904, nel quale le visioni etniche ancora perduranti sono travolte a profitto di un'interpretazione sociale (il saggio è definito a ragione "uno dei culmini dell'opera volpiana"). Ancora: gli interventi su Percy Schramm e sulle sue straordinarie repertoriazioni di scettri, globi, corone, mantelli non nascondono del tutto qualche scetticismo sulla reale efficacia di questi apparati di simbolica dello stato per l'esercizio del potere imperiale.
Infine, il libro formula anche un discorso sulle istituzioni della medievistica e indica l'opportunità di fare spazio, nella storia della storiografia, ai modi concreti di formazione degli storici e di organizzazione della ricerca. Presidente dopo Raffaello Morghen dell'Istituto storico italiano per il Medio Evo dal 1982 al 2001, Arnaldi ricostruisce a più riprese le vicende dell'Istituto, la sua politica di edizione di fonti, la sua funzione di orientamento dei giovani alunni della Scuola nazionale di studi medievali durante la presidenza Morghen. E anche qui le vicende si annodano intorno a questioni: il rapporto difficile tra un Istituto con compiti di coordinamento e la ricerca storica in sede locale, il canone degli autori da pubblicare in quanto problema di una memoria ufficiale italiana, il delicato confine tra dovere di insegnamento e libertà degli allievi quando ci si propone di "fare scuola" in materia storica.
Enrico Artifoni
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