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Fra il luglio 1937 e il novembre 1938, mentre tutti i fari erano puntati sui processi di Mosca, ossia sulla lotta contro la presunta eversione interna al partito che guidava l'Urss, 750.000 suoi cittadini vennero liquidati ai quattro angoli della nazione: era il frutto, spiega Nicolas Werth, di "un parossismo repressivo e sterminazionistico unico nella storia sovietica". Oggi, più che mai, a vent'anni esatti dalla dissoluzione-disgregazione del regime sovietico (dicembre 1991), è utile prendere fra le mani questo saggio, in cui sono attentamente ricostruiti i processi decisionali che condussero una così grande quantità di individui al carcere, alla tortura, ai campi di concentramento o alla fucilazione. Come dimostrato da una mole considerevole di documenti d'archivio, se con la purga nel partito e nelle forze armate, che in quell'infuocato biennio riguardò solo il 7 per cento delle vittime di arresti ed esecuzioni, Stalin si preparava a un'eventuale guerra con Hitler, lasciando al proprio posto solo i più affidabili, l'obiettivo primario delle operazioni di massa fu invece il ripristino del controllo sulle zone frontaliere. Accuse il più delle volte indimostrabili, non di rado fantasiose, colpirono migliaia di persone: "ex kulaki", membri del clero, minoranze nazionali, "elementi socialmente pericolosi", individui che avessero avuto contatti con stranieri, byvie ("persone del passato", l'élite dello zarismo, già falcidiata dopo l'assassinio di Kirov nel dicembre 1934). Il tutto nel nome di quella lotta al "burocratismo" e al "nepotismo" delle "cricche provinciali" venuta infine a concretizzarsi dopo un'annosa, martellante demonizzazione della burocrazia periferica. L'aveva patrocinata, su richiesta di Stalin, Nikolaj Eov, che era asceso al timone del Nkvd (Commissariato del popolo per gli affari interni) dopo la liquidazione di Jagoda: pur avendo gestito il primo dei processi moscoviti, conclusosi con la condanna a morte di Kamenev e Zinov'ev, quest'ultimo era incorso nell'accusa di far parte del "blocco di destra" colpevole dell'uccisione di Kirov ordinata in realtà dallo stesso Stalin. Fu così che l'Urss rassomigliò sempre più all'opposto della società favoleggiata dalla Costituzione del 1936. Con la tempesta della repressione, ogni parvenza di diritto finì per dissolversi: nell'agosto 1937, a Jaroslavl', si giunse a giustiziare ben settantasei delinquenti comuni, propinando loro una pena sproporzionata, solo per liberare posti nelle carceri, in previsione degli imminenti cospicui afflussi. Senza che ad alcuna famiglia venisse mai comunicato nulla, in quella che va forse vista come la più spietata guerra condotta da un dittatore contro il proprio stesso popolo, un sovietico su cento fu condannato, uno su duecento ucciso. Alcune regioni vennero meno duramente colpite, in particolare quelle centrali, ritenute nel complesso non strategiche e meno permeabili alle infiltrazioni; altre lo furono invece assai più, come la Carelia, dove nella mattanza sparì il 3 per cento degli abitanti, e la Siberia (1,8 per cento), dove Stalin sosteneva che una fantomatica Unione militare russa stesse approntando l'insurrezione. Gulag e carceri riservarono a quasi tutti condizioni di vita atroci, come riferisce un fondamentale documento riportato da Werth, il Memorandum che Andrej Vyinskij, procuratore generale dell'Urss, scrisse per Nikolaj Eov. L'autore esamina i complotti strumentalmente paventati, il variegato ventaglio di tipi sociali che Stalin perseguitò, le misure via via prese per stroncarli da Mosca e dalle autorità regionali, a ciò indotte dalle sue minacce. Il peggio è che si rasentasse di continuo uno sconfinamento nell'assurdo, a metà strada fra Kafka e Ionesco, come quando a cader vittima del Grande Terrore furono i "banduristi" ucraini, un gruppo di innocui musicanti ritenuti al soldo della Polonia solo perché due di loro erano stati prigionieri laggiù nel 1920. Infine, il 17 novembre 1938, con una semplice circolare, Stalin a nome del partito e Molotov a nome del governo fermarono il Grande Terrore. Probabilmente nel corso dell'estate il dittatore si era reso conto dell'eccesso di potere accumulato dal Nkvd e dal suo fitto sottobosco burocratico. Timoroso di dover fronteggiare nascenti individualità e mal definibili nuclei di potere, di lì a poco fece accusare i vari capi regionali di aver dilettantescamente perso ogni misura nelle azioni repressive, mentre all'ormai ingombrante Eov imputò i gravi reati di spionaggio, cospirazione per conto di nazioni straniere, sodomia. Nel 1938 Eov aveva fatto fucilare il proprio predecessore Jagoda per lo scarso "zelo" rivoluzionario; a succedergli fu Berija, che fra il gennaio e il febbraio del 1940 sarebbe stato a sua volta regista della condanna a morte di Eov: un infernale ingranaggio doveva riprodurre senza sosta, tra i fedelissimi di Stalin, la tragedia di un intero popolo. Daniele Rocca
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