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Un libro che mi ha sorpreso per i tanti aspetti diversi con i quali approccia il tema del viaggio, del paesaggio, sia esterno che interno, del brulicare di gente sulle strade del Medioevo ed infine del delicato aspetto del nostro incontro-scontro con l'altro, il diverso, con tutto il corollario di paure che ne consegue, mondi immaginari inclusi.
“Viaggiare é un ripetuto negarsi all'abitudine”. La disamina delle testimonianze di chi viaggia e di come si viaggia nel Medioevo é solo un corollario alla descrizione dell'incontro col diverso, il tutto ben espresso dalla breve frase di cui sopra, estratta dal capitolo dedicato al ”mondo conosciuto”. Non si parla solo di Medioevo in questo libro, ma di accettazione della diversità, di pregiudizi reciproci, che ci fanno riflettere se la nostra modernità abbia effettivamente modificato il nostro approccio allo straniero.
Recensioni
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“Viaggiare” vuol dire intersecare lo spazio e nel medioevo lo spazio è, almeno fino a una certa altezza, soprattutto quello prossimo, circostante. Le lunghe distanze, gli infidi percorsi oltre confine sono riservati alle “missioni per conto di Dio”, declinate nel pellegrinaggio, nelle translationes o, trasceso il corpo del viaggiatore, nel viaggio interiore. Come scrisse Paul Zumthor, nell’età di mezzo il “rapporto dell’uomo con lo spazio (...) è determinato dal fatto e dalla coscienza di un isolamento”. Ciò provoca, parallelamente al resoconto, orale o scritto, di reali esperienze di attraversamento, il fiorire di una dimensione onirica, immaginifica, che riconfeziona il viaggio come espressione, proiezione e superfetazione di indiscutibili auctoritates, prime fra tutte, la Bibbia. Così, il sacro certifica le forme dell’ignoto nel medioevo; e il tema dell’altro, degli antipodi, del favoloso e del meraviglioso irrompe come costante generica di una letteratura di viaggio di stampo essenzialmente neoplatonico. Il viaggio, nell’alto medioevo, è, prima di tutto, uno “stato della mente”. Finché il viaggio resta monastico e metaforico, il medioevo riflette un’immagine figurale dello spazio che gli corrisponde e lo connota per ciò che è: l’ultima grande epoca dotata di un linguaggio autorevole, capace di dire che il visibile non esaurisce il reale. Poi, progressivamente, quel mondo acquista fiducia, si libera dall’incubo del dies irae et clangoris ed esce allo scoperto. Lo fa per denaro, quando il commercio lo porta a trattare: con lo spazio, ma presto anche con il tempo. Così, dalle convenzioni della stabilitas loci di un Beda Venerabile si passerà a quelle, assai più contingentate, di un Guglielmo di Rubruk. Questo libro parla della mobilità di un medioevo ritenuto immobile e delle rifrazioni di un’età, che, almeno in parte, ha riscoperto il mondo per l’occidente.
Recensione di Francesco Mosetti Casaretto
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