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La storia è ambientata a Parigi, tra il 1934 e il 1940. Sono anni tumultuosi per quel Paese, uscito sì vincitore dalla Prima Guerra Mondiale, ma con problemi che non sa risolvere. Il protagonista è un piccolo contabile con moglie (malata), e figlia, che deve aiutare i suoi capi a evadere le tasse, a spostare i soldi in Svizzera perché la situazione economica è seria e quella politica non è da meno. Intanto in Germania Hitler si prepara… Tutto è visto dalla prospettiva di un contabile che “vorrebbe”; ma non può. Vorrebbe dire quella cosa al suo capo; ma non può. Vorrebbe essere più buono; ma non può. Vorrebbe dire ai suoi amici del bar quello che davvero pensa; ma (tanto per cambiare), non può. Attorno a lui, altri che vogliono, ma soprattutto persone che agiscono. Fanno e disfano, mentre quelli che vorrebbero si limitano ad assistere e ad assentire. Ma che cosa rende Bigou (il protagonista), interessante? Magari combina qualcosa di eroico? No. Il cuore di questa storia, probabilmente, è che le persone, tutte, trascinate volenti o nolenti nel conflitto, restano uguali a se stesse. Solo quando nel granaio la figlia partorisce, per qualche istante c’è una serenità tra le persone coinvolte, e tutte ormai decise a salvare la propria pelle, che è come un bicchiere di tè caldo in una fredda giornata invernale. Bruce Marshall non intendeva affatto pontificare sulla bellezza della guerra. Semmai voleva constatare come tutte le difficoltà, e la più spaventosa tra di esse è di sicuro la guerra, mettessero in luce quello che per le persone conta davvero. Ma la rivelazione, se così possiamo definirla, non è straordinaria. Non siamo alle prese con un miracolo, una riscossa, o chissà cos’altro. Quando tutto crolla, anche i frammenti di umanità, di bontà, che si trovano all’improvviso, in maniera inaspettata, sono essenziali. Questo romanzo, un po’ come Diogene, li recupera e li indica. In maniera sommessa, tranquilla.
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