L'indagine sui pittori stranieri attivi a Roma nel corso del Rinascimento è un tema di lungo corso per Nicole Dacos, dai Peintres belges à Rome del 1964 fino alla mostra del 1995 Fiamminghi a Roma 1508-1608 e al libro Roma quanta fuit. Tre pittori fiamminghi nella Domus Aurea. Per ammissione della stessa autrice, il volume ora edito da Jaca Book si pone dunque come bilancio di una vita di ricerche. Nelle pagine superbamente illustrate di questo Viaggio a Roma si avvicenda un numero quasi vertiginoso di artisti, affrontati secondo una scansione fondata sui tempi del loro arrivo e permanenza a Roma, nella convinzione che, in una certa epoca "indipendentemente dalla loro età e dalla loro origine, tutti quelli che sono partiti per l'Italia sono stati attratti dagli stessi modelli". Su tali premesse, invero un poco schematiche ma certo utili a organizzare la vastità della materia, l'analisi dei soggiorni romani si dipana in cinque capitoli: Il tempo "delle Aquile" (con riferimento al Da pintura antiga di Francisco de Hollanda, edito nel 1549, dove a fianco delle "aquile" Raffaello e Michelangelo sono nominati gli spagnoli Alonso Berruguete, Machuca, Ërdoñez e Diego de Siloé); Il richiamo dell'antico e di Raffaello; Nel segno di Michelangelo; Nostalgia del Parmigianino e virtuosismo; Ritorno al "naturale", spingendosi fino a Rubens. Capitoli a loro volta articolati in paragrafi, spesso brevi e simili a schedature, che raggruppano i pittori per provenienza: Spagna, Paesi Bassi, Portogallo, Francia, Germania ma anche Creta (El Greco, ovviamente) e la costa croata, con Giulio Clovio (quest'ultimo uno dei rari casi di relais tra le varie comunità nazionali che, di norma, tendevano invece a una marcata autoreferenzialità). Due ulteriori capitoli sono dedicati a una discussione dei disegni di Alonso Berruguete e al cantiere "internazionale" di Palazzo Capodiferro-Spada. Il Viaggio entra dunque nelle botteghe romane dove, a partire dal caso monstre della bottega raffaellesca (in parte poi replicato da Perin del Vaga), all'ombra di un maestro erano attivi diversi pittori, anche per brevi periodi, a seconda delle necessità. Per muoversi entro queste botteghe dalla geometria variabile, la stella polare eletta da Dacos è la connoisseurship, "un terreno insidioso, si dirà, che oggi non gode di grande favore". L'esito è una scansione cronologica puntualmente presente nella didascalia di ogni immagine: "prima di Roma", "dopo Roma" o "durante Roma". Il libro è in tal senso ricco di inedite proposte attributive, con diverse articolazioni interne di responsabilità nei cicli ad affresco, il cui vaglio analitico obbliga, caso per caso, a interrogarsi sui possibili riassestamenti nei percorsi biografici degli artisti. Per fare solo alcuni esempi, tutti di provenienza francese, si ipotizza la presenza a Roma di Jean Cousin il Giovane nella sala del Trono del Palazzo dei Conservatori, di Charles Dorigny in Palazzo Massimo alle Colonne, di Antoine Caron a Palazzo Massimo di Pirro e di Jean Chartier nella Sala delle Origini di Roma in Palazzo Capodiferro-Spada: presenze che sostanzierebbero quel clima retour de Fontainbleau che si avverte in diversi cicli decorativi romani dei maturi anni quaranta. Ad apertura e a chiusura del volume, due capitoli conducono una più ampia analisi del fenomeno del "viaggio a Roma" dove, anche attraverso le fonti, sono messe in luce le ragioni che spingevano gli artisti in Italia: "per imparare e guadagnare", come scriveva Vasari nella Vita di Taddeo Zuccari riferendosi ai "giovani forestieri che sempre sono in Roma e vanno lavorando a giornate", per realizzare "opere che potessero assicurargli un successo meno volgare", come scrisse Dominique Lampson riferendosi a Lambert Lombard. Dacos si sofferma inoltre sul fenomeno ricorrente di una "normalizzazione", una volta tornati in patria, del linguaggio pittorico appreso in Italia (Tra assimilazione e rigetto), quando, con una metafora linguistica cui l'autrice ricorre sistematicamente, "la padronanza dell'italiano tende di frequente a smussarsi. La sintassi diventa più limitata, il lessico si impoverisce" e "ha inizio un periodo di riflessione" che può dare come esito "una distillazione più sottile" oppure "un rigetto, in un ritorno alle proprie radici": dinamiche che, a evidenza, s'intrecciano intimamente con le richieste e le aspettative delle committenze e dei pubblici. Un'appendice, infine, ripercorre la vicenda storiografica dei "romanisti" entro i due poli dell'indiscusso prestigio che fino all'Ottocento riveste il viaggio a Roma e delle resistenze verso il "meticciato" fra tradizioni pittoriche locali, specie quella fiamminga, e l'arte antica e italiana. Un rifiuto che, nel secondo Novecento, ha lasciato progressivamente il posto a una più serena comprensione del fenomeno, storico e culturale, di cui questi pittori sono espressione; sebbene, conclude il suo volume Dacos, certi studiosi "non hanno ancora smesso di paventare [in questi pittori] il meticcio in agguato". Stefano de Bosio
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