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Noi e gli antichi. Perché lo studio dei Greci e dei Romani giova all'intelligenza dei moderni
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Noi e gli antichi. Perché lo studio dei Greci e dei Romani giova all'intelligenza dei moderni - Luciano Canfora - copertina
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Noi e gli antichi. Perché lo studio dei Greci e dei Romani giova all'intelligenza dei moderni

Descrizione


Il vincolo che collega la nostra cultura alla lingua, alla storia, al pensiero dei greci e dei romani non va ricercato in una presunta "identità" tra gli antichi e noi. Al contrario, è opportuno, e più produttivo, sforzarsi di capire le differenze; e proprio la riflessione su questa distanza ci consentirà di conoscere il senso che il passato e la sua eredità hanno per noi. È questa la via seguita da Luciano Canfora nei saggi scritti per questo volume, incentrati su alcuni temi cruciali: il metodo degli storici antichi, il rapporto tra storiografia e verità, la visione della storia come mescolanza, come fiume "grande e lutulento" che assimila e trascina le più diverse tradizioni culturali.
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Dettagli

2004
Tascabile
10 marzo 2004
148 p., Brossura
9788817000710

Valutazioni e recensioni

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Marco
Recensioni: 4/5

Un buon percorso nel pensiero di Canfora che parte certo dall'antichità ma propone (e provoca) riflessioni sul nostro sistema scolastico, sulla nostra società contemporanea e sulla nostra identità.

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Maurizio
Recensioni: 5/5

Ha ormai 10 anni (e' uscito nel 2002) il bel volumetto di Canfora, grande storico, filologo e commentatore e studioso della politica, sempre vista portando sulle spalle lo zaino della storia. La lucidita' icastica dell'Autore si sporge verso il lettore, per porgergli i fatti, le teorie, i personaggi. Lo aiuta e lo invita a riflettere per capire. Il senso del volume e' quello di capire le differenze tra gli antichi e noi. Perche' il nodo e' proprio quello di scoprire le differenze con il pensiero del passato: il pensiero comune degli intellettuali dell'antichita'. Caro argomento quello dell'intellettuale per Canfora, che ha scritto piu' di un testo su questa materia. Bella l'appendice che riproduce, nell'originale latino e nella traduzione, un brevissimo scritto giovanile di Karl Marx su Augusto e la sua epoca. Da leggere come tutti i libri di Canfora.

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Voce della critica

In un momento in cui la cultura classica men che godere degli antichi privilegi si vede relegata nei progetti di riforma dei nostri illuminati governanti a materia opzionale o limitata a una ristretta cerchia di improbabili entusiasti del latino e del greco, il libro di Canfora propone solidi argomenti per riflettere sulla centralità degli studi classici nella formazione della cultura moderna, onde non accada a questa o alla prossima generazione ciò che prevedeva Paul Valéry, di produrre cioè "uomini che non saranno più legati al passato da nessuna abitudine mentale", ai quali "la storia non offrirà (...) che racconti strani, quasi incomprensibili: perché niente, nel loro tempo, avrà avuto un qualche esempio nel passato". Il discorso di Canfora non è l'ennesima variante dell'affermazione classicistica - e un po' ovvia - che il presente ha un cuore antico, e neppure la riproposizione dell'assioma crociano "ogni vera storia è storia contemporanea", ma deduce la legittimità della visione di un passato sempre presente (Canfora la chiama con audace neologismo "presentezza" del passato) dalle regole del lavoro dello storico, il quale, nel costruire il tessuto narrativo per dare un senso ai fatti, tenderà sempre a rivelare una verità che naturaliter è condizionata sia dalle sue categorie interpretative sia dalla scelta e dalla disponibilità delle fonti.

La "verità storica", quindi, non è uno status permanente della conoscenza, ma si rinnova a ogni generazione, senza che questa mutabilità dell'oggetto storico debba trasformarsi in un atteggiamento scettico nei confronti del mestiere dello storico, anche se periodicamente non sono mancate accuse di questo genere, a cominciare da Seneca per continuare con Nietzsche e arrivare a H??? White. La conoscenza del passato - e in particolare del passato antico, greco-romano - acquista senso se si propone come conoscenza per differentiam, che si deve intendere in due modi: distacco tra noi e l'antico, che significa in definitiva "riuso" dei concetti e paradigmi classici in un senso adattato a nuove circostanze storiche, e rifiuto dell'omologazione della cultura antica in paradigmi statici. Accanto al recupero della "ciclicità" degli eventi storici suggerita dagli autori antichi, Machiavelli rivaluta anche l'idea della Fortuna che "mette in crisi l'idea della prevedibilità dei comportamenti"; se la sofistica ha elaborato un concetto universale e immutabile di "natura umana" di fronte alla convenzionalità della legge, la contemporanea medicina greca ha osservato empiricamente la variabilità secondo i luoghi e le culture di questa stessa natura, trasformandola in un concetto relativo; Hobbes, che sotto la categoria di "monarchia" sussume senza distinguerle monarchia e tirannide, è un altro esempio di come la cultura moderna si sia liberata dal "vincolo degli archetipi", pur servendosi delle stesse fonti antiche (Tucidide). D'altra parte va riconosciuto che la "cultura moderna" con l'umanesimo si è affrancata dal medioevo, privilegiando la cultura classica come paradigma e costruendo sul suo recupero un modello di indagine filologica che è servito poi come fondamento a qualsiasi narrazione del passato. Un racconto che ha trovato le sue soluzioni narrative passando dalla parola d'autorità del re che racconta le sue gesta (Dario, Augusto) al soggetto individuale e privato che pensa i fatti storici e li ordina secondo un criterio e una logica che ricercano nella serie infinita dei fatti un principio ordinatore (lo scontro tra greci e barbari, la guerra del Peloponneso) capace di rendere il discorso storico razionale e nello stesso tempo organico.

La questione centrale del mestiere dello storico - quella della verità - non si risolve con il ripiegamento sulla biografia, cioè sulla storia del singolo (e a questo proposito Canfora si richiama alla lezione di Lewis Namier) che apparentemente ha una maggiore probabilità di oggettività, ma con il riconoscimento che è inevitabile - e salutare - che "la ricerca storica si frantum(i) in una infinita serie di ricostruzioni di fonti (documentarie e storiografiche)". La constatazione di Don Chisciotte che la scrittura storica è "madre di verità" nasconde una verità indiscutibile, che tocca il problema dell'uso delle fonti nel lavoro dello storico da cui scaturisce la variabilità della narrazione dei fatti. Il privilegio riconosciuto all'"occhio" - cioè all'autopsia diretta - è superato dall'accumularsi di fonti e di informazioni che se da una parte condizionano l'opera storiografica, in quanto sono sottoposte a vincoli esterni allo storico stesso (potere di accesso gestito dall'alto), dall'altra permettono la possibilità di varianti interpretative pressoché infinite. Canfora ricorda a questo proposito una sagace pagina di Gerolamo Vitelli in cui il grande filologo dimostrava che la "concatenazione" dei fatti nel discorso storico non è in nulla diversa dal lavoro congetturale del filologo, anche se la prima gode di una maggiore libertà in quanto non è vincolata alle regole del testo.

Ma la "scoperta dell'antico" può rivelarsi anche un'avventura intellettuale in cui si può toccare con mano la continua mutabilità delle interpretazioni e insieme la sua sorprendente "attualità", come Canfora dimostra attraverso alcune tematiche storiche particolarmente significative: la conservazione delle dottrine epicuree, censurate sia dai pagani sia dai cristiani, tramite l'opera di Diogene Laerzio, un greco alessandrino del II secolo d.C., che rivela, come già osservava in una nota della sua edizione Gilles Ménage (1664), la frequentazione della lingua dei cristiani della sua epoca; il problema della schiavitù antica nella storiografia marxista a partire dal Manifesto, con l'inquietante postilla finale sulle nuove forme di schiavitù "strutturalmente necessarie" al sistema capitalistico dell'Europa dopo il crollo del "socialismo reale"; la questione dell'alfabetizzazione nel mondo antico, un tema piuttosto sfuggente per tutta l'età antica, la cui conclusione è davvero sorprendente: la diffusione se non altro della capacità di lettura anche nei ceti più bassi è legata a un "libro dei poveri", il Nuovo Testamento, che accelerò anche una rivoluzione nella tecnica libraria con l'introduzione del codex, cioè del libro; la storia della scoperta degli ebrei da parte dei greci e viceversa, che ripercorsa attraverso l'opera di Elias Bickermann si rivela come una "storia della mescolanza", da cui si deduce che l'osmosi culturale tra Oriente e Occidente è una vicenda ben più antica dell'avventura di Alessandro Magno; infine, il ruolo della retorica come discorso argomentato in funzione della democrazia e la pervasività del mito e della narrazione mitica come fatto fondamentale della cultura religiosa antica, connotata da tolleranza e spirito sincretistico, capace di innestarsi anche sul ceppo della nuova religiosità cristiana.

In sintonia con questa visione storicizzata e nello stesso tempo "attualistica" (nel senso della continuità ininterrotta delle interpretazioni, non nella prospettiva falsificante delle "attualizzazioni") della cultura classica, Canfora propone alcune riflessioni sull'insegnamento nelle scuole. La difesa della traduzione dalle lingue classiche e la comprensione/trasmissione storicizzata di quel patrimonio culturale faranno sicuramente digrignare i denti agli attuali sostenitori della nuova enciclopedia pratica del sapere centrata sulle "tre I" (Impresa, Internet e/o Informatica, Inglese). Partendo dalla constatazione che la trasmissione a tutti di un insegnamento degradato non è la realizzazione di un'"istanza egualitaria", ma una vera e propria frode nei confronti degli utenti, nonché ragione di scontento e avvilimento da parte della classe insegnante, l'autore, richiamandosi anche a pagine famose di Gramsci in difesa dell'insegnamento delle lingue classiche e della cultura che in esse si esprime, sostiene la necessità di un contatto critico già nell'insegnamento inferiore con le due civiltà classiche, contatto impostato sulla nozione di "discontinuità conoscitiva" - vale a dire non su una rappresentazione "organica" delle opere letterarie, ma su un discorso che metta in risalto gli snodi della tradizione e le loro ragioni - e sulla "storicizzazione" della comprensione e della lettura: la traduzione, oltre che essere un severo tirocinio linguistico e logico, deve servire a contestualizzare il testo nella cultura della sua epoca, nella coscienza che non esiste mai un'interpretazione vera e definitiva. Quindi l'insegnamento delle lingue classiche, ben lontano dall'essere un esercizio "inutile" dal punto di vista pratico, può diventare la base di quella consapevolezza storica della nostra tradizione culturale che dovrebbe essere il punto di partenza di una scuola formativa realmente democratica, in cui si insegni che "ogni 'cittadino' può diventare 'governante'", in quanto la società - cioè la scuola - "lo pone, sia pure 'astrattamente', nelle condizioni generali di poterlo diventare", come diceva Gramsci.

Il che porta a riflettere sulle reali intenzioni democratiche di progetti di riforma che tendono a separare una scuola di élite - preferibilmente privata - dalle scuole professionali, moltiplicate per "venire incontro" ai bisogni del popolo: il confronto istituito da Canfora tra la preferenza gramsciana per un insegnamento "oligarchico" come quello classico quale base formativa del futuro cittadino, e le proposte del liberal-conservatore Aléxis de Tocqueville, che suggeriva strette limitazioni alle scuole classiche, destinate a "coloro che, per naturale tendenza o per fortuna, sono portati a coltivare le lettere o predisposti a gustarle", mentre "nelle società democratiche l'interesse degli individui, così come la sicurezza dello stato, esigono che l'educazione della maggioranza sia scientifica, commerciale e industriale, piuttosto che letteraria" , invita a dubitare su quale sia la democrazia che i nostri riformatori intendono favorire con la separazione netta tra una scuola "professionale" destinata a impieghi pratici - e a soggetti sociali inevitabilmente subalterni - e una scuola di élite (affidata preferibilmente all'iniziativa privata) formativa della classe dirigente.

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Luciano Canfora

1942, Bari

Luciano Canfora nato a Bari, è ordinario di Filologia greca e latina presso l’Università di Bari. Laureatosi in Storia romana, ha svolto il perfezionamento in Filologia classica alla Scuola Normale di Pisa. Assistente di Storia Antica, poi di Letteratura Greca, ha insegnato anche Papirologia, Letteratura latina, Storia greca e romana. Fa parte del Comitato scientifico della “Society of Classical Tradition” di Boston e della Fondazione Istituto Gramsci di Roma. Dirige la rivista «Quaderni di Storia» e la collana di testi “La città antica”. Fa parte del comitato direttivo di «Historia y critica» (Santiago, Spagna), «Journal of Classical Tradition» (Boston), «Limes (Roma)». Ha studiato problemi...

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