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E' un libro-denuncia che fa sentire l' "odore" della Sicilia dentro le narici(ma ormai non solo lì, anche in altri posti si respira quest' aria di soprusi assassini): poveri noi.......!
Non ho espresso il massimo della valutazione a Disio, romanzo che solo ora mi accingo a leggere, ma alla scrittrice, Silvana Grasso, e ad altra sua produzione. Stimo la Grasso come colei che, per voler utilizzare o scimmiottare i suoi ricorrenti riferimenti mitologici, gli dei o le muse hanno tanto graziato con il dono delle parole, da destinarla alla rosa dei più grandi narratori del tempo. Lo fagociti un suo romanzo, vuoi ingoiarlo di botto fino alla fine per poi tornare a desiderare che il suo raccontare ricominciasse daccapo
leggere Disio e' stato come leggere una lunghissima poesia. conosco abbastanza la realta' e il linguaggio siciliano per cui non ho faticato a leggerlo in un fiato e a riconoscere tutto quello che avevo gia' incontrato in questa terra meravigliosa. (io sono milanese) complimenti all'autrice. ha scritto una bellissima opera,vorrei saper scrivere come lei e tradurre in parole le emozioni, i sentimenti, le vicende della mia vita. avrei voluto poterle scrivere di persona per confrontarmi con lei!
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"Non è lacrima di cielo, né conca dove la sorgiva 'nguma, tra vecchia alleanza di muschi, il suo inviolato imene d'acqua. È currulìo di gocce, nell'arso pistillo della tua vena, madre, un sordo miserere per una burrasca di polsi già consunta". Il nuovo romanzo di Silvana Grasso inizia così: una duplice negazione, uno sgorgare di metafore, dovizia di sicilianismi. Metafore preziose e sicilianismi spesso "aspri e chiocci" resteranno una costante del romanzo, sommandosi a rime interne e svariati espedienti retorici, e rimpolpando così una prosa poetica che non teme il succedersi vertiginoso delle subordinate, con un gusto tutto barocco della dilatazione: "L'occhio quasi impubere nell'assedio delle ciglia brune, feroce della sua sicurezza, dirà che sei morta, madre, solo per averti tastiàto la fronte con dita sonnambule della mano destra, zanniànti nell'ammezzato delle tue palpebre, rigide per appretto di morte, incantesimate a metà della pupilla, come montagna che ruina e intrùppica su un aquilone di pietra e trema e fa tremare i muscoli di terra in flamenco di vertigini".
Lo smalto stilistico è un segno di continuità con la produzione di Grasso. È più problematico valutare l'ombra negativa che si stende sull'incipit, e connetterla alla scommessa di non abbandonare i temi esistenziali, che le sono sempre stati congeniali, però saldandoli all'erompere di un'indignazione civile che per lei è una corda nuova e per la narrativa contemporanea non è esattamente pane quotidiano (se pensiamo a un pane impastato con l'eccellenza dello stile).
Protagonista del romanzo è Memi, psichiatra in preda a nevrosi stratificatesi in un'infanzia siciliana segnata da uno stupro, di sapore fantastico ma non per questo meno perturbante, da angosciose somatizzazioni, dall'evanescenza della figura paterna e soprattutto dalla virulenta ostilità della madre, una Medusa di cui non è mai riuscita a guardare gli occhi. Pur lavorando a Milano, le mani di Memi sono "ubbidienti da sempre alla seduzione del niente", il suo sonno rimane ancora "taglieggiato dall'Incerto che fu ed è il basamento certo della mia esistenza". Nel vuoto dei sentimenti, Memi fa i conti con questa negatività totalizzante fino alla morte della madre: una svolta che potrebbe farla riconciliare con le radici, sicché partecipa a un concorso ospedaliero in una grande città della Sicilia, che resta anonima perché ben sintetizza il brodo di coltura dell'antropologia politico-mafiosa isolana.
Per un tragico imprevisto, il concorso, pur pilotato da un onnipotente direttore sanitario ras della politica locale, non è vinto dal candidato predestinato, ma da Memi; la quale dovrà ora esorcizzare le larve del passato e battersi con le idre del presente. Combattiva com'è ("forse inseguendo da anni la sua metamorfosi, Memi progettava quella altrui"), diventerà una pietruzza pericolosa nel ben oliato ingranaggio gestito dal dottor Candido Dolcemascolo e dal presidente della Regione siciliana Onorino Mangiulli (l'allusività onomastica è l'unica nota umoristica di un romanzo magnificamente tragico). Ma chi ha davvero in mano le redini del potere mafioso è Emilio, il fratello di Mangiulli, uno straordinario personaggio soprannominato l'Anima: studioso di filosofia e lettore di poeti, adoratore della Turandot (il cui libretto scandisce i passaggi simbolicamente più significativi del libro), da bambino traumatizzato dall'uccisione dei genitori e trasformatosi, dopo l'incidente che l'ha reso tetraplegico, in uno spietato capomafia. Inutile chiedersi come la metamorfosi sia stata possibile: l'autrice accetta il rischio dell'incongruenza per moltiplicare l'effetto paradigmatico e perturbante del personaggio, peraltro divorato da un inconfessabile "disìo", che non è mero desiderio di qualcosa ma è un quid più ancestrale e buio, che lacera anima e corpo in cerca di un'impossibile tregua con il proprio vissuto ("non l'appartenenza ma l'esclusione era il suo canto").
Non è il caso di rivelare al lettore lo scioglimento (arzigogolato come in un sapido melodramma) di una vicenda che si valorizza anche nella tensione verso il compimento dei destini individuali: un po' come nell'epica omerica, modello narrativo a cui Grasso, pur così barocca nello stile, guarda con competenza di grecista. Ce lo dice il ripetersi cadenzato di talune frasi o sintagmi (uno per tutti: "opporre il petto") e l'efficacia con cui l'autrice trasforma un romanzo che inizia come autodiegetico e diventa, con l'impercettibile passaggio alla narrazione in terza persona, convincente catalogo di deuteragonisti: prima Dolcemascolo, poi un sostituto procuratore che tenterà invano di tutelare la legge in una città in cui il suo diretto superiore è colluso con la mafia, infine l'Anima. Il romanzo, pieno di temi e personaggi che si richiamano specularmente, si chiude sotto il segno della complessità: i nodi non si sciolgono (forse ci sarà un'altra morte, ma intanto c'è la leopardiana contemplazione di una presenza incontaminata dal "cancro" mafioso: "La luna non doveva giudicare né patire né capire. La luna era solo la luna"), ma i grandi simboli dell'esistenza si radunano come in un redde rationem : la luna, il mare, le sirene, l'acqua, il pianto. Silvana Grasso ci lascia senza averci consolato ma più ricchi di bellezza e saggezza.
Giuseppe Traina
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