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"A me interessano, in ciò che si scrive, i fili invisibili di cui è intessuta la vita dove la trama, per un attimo, o per un anno, o per tre, si arresta". È difficile resistere alla tentazione di estrapolare questa frase da La marea umana (pp. 166, 18, Rizzoli, Milano 2010), dove a pronunciare è la voce del narratore, e farne il motto del romanzo, se non dell'intera opera narrativa di Franco Cordelli. Eppure non bisogna cedere a questa tentazione, soprattutto perché quasi a ogni pagina ricorrono considerazioni di tonalità analoga, sentenze, pensieri, interrogativi, che non ci vorrebbe molto a trasformare in altrettante dichiarazioni implicite di poetica, se pure, forse, meno pertinenti. Si rischierebbe di rimanere prigionieri della ragnatela che lo stesso Cordelli, con straordinaria bravura, ha costruito su un fraseggio principalmente a due voci: il narratore e l'amico Azio, cioè Aki, emigrato da parecchi anni in Estremo Oriente e, per una sequenza di coincidenze luttuose, ritrovato giusto per il tempo di due lunghi incontri, tra la fine del 2006 e l'inizio del 2007.
La marea umana, il più astratto, il più verticale e sino a oggi anche il più bello di tutti i romanzi di Cordelli, è un libro sul tempo e sulla confutazione del tempo. Si tratta di un libro sul tempo perché la ricomparsa di Azio-Aki avviene attraverso una remota compagna di scuola, che a sua volta, per associazioni, obbliga il protagonista a rievocare altre figure, prevalentemente femminili e prevalentemente morte, degli anni del liceo e dell'università: una folla di fantasmi, tanto coloro che sono ancora vivi ma che sono usciti dallo spettro percettivo del narratore, quanto coloro e alla fine risulteranno più del previsto che in un arco di tempo di quasi mezzo secolo hanno preso congedo dal nostro mondo. Da cui, appunto, la marea umana del titolo.
Per come è costruito, l'ultimo libro di Cordelli è però anche, e forse soprattutto, un romanzo sulla confutazione del tempo. Il racconto va avanti e indietro con estrema libertà, adesso negli anni sessanta, poi nel dicembre 2006, poi ancora nel gennaio 2007, di nuovo gli anni sessanta, gli anni ottanta, gli anni sessanta ancora, gennaio 2007, dicembre 2006: tutto in un pugno di pagine. Le date esatte, così numerose, hanno la funzione di vere e proprie pietre miliari dell'autobiografia del protagonista, ma si direbbe che siano lì soprattutto per dare alla voce narrante l'opportunità di negare la loro forza di periodizzazione. Colui che parla, l'amico di Azio-Aki cui non viene mai dato un nome, non smette mai, infatti, di stabilire impalpabili somiglianze tra accadimenti distanti e persino remoti tra loro (un po' come gli stessi aggettivi rari ritornano a distanza di pagine per persone, luoghi o azioni diverse, per esempio la parola "struggente"). Pur nella costante fedeltà di Cordelli a un passato remoto "eroico", che epicizza anche le azioni minori, questa vertigine dei piani temporali fa pensare soltanto alla Sylvie di Gérard de Nerval, con i suoi ambigui imperfetti. E questo tanto più che la filosofia orientale di cui è imbevuto il deuteragonista Aki offre un ulteriore impulso al sovvertimento delle categorie con cui percepiamo di solito le nostre vite. Laddove tutti i fenomeni si specchiano negli altri, rifrazione e moltiplicazione tolgono valore alle esperienze singolari: e improvvisamente anche noi lettori ci ritroviamo al di là del tempo, o per lo meno al di là del tempo narrativo tradizionale.
Cordelli non è il solo scrittore della sua generazione che di recente abbia affrontato frontalmente il vecchio tema del tempus edax rerum, il tempo che divora ogni cosa. Nel 2009 era toccato ad Antonio Tabucchi, con una raccolta di racconti (Il tempio invecchia in fretta), ma qualcosa di simile si potrebbe dire anche di Daniele Del Giudice, che nel 2005 fa aveva presentato un testo breve sullo stesso soggetto al Festival della Letteratura di Massenzio, poi pubblicato sulle pagine di "Repubblica" e mai raccolto in volume. La grande intuizione che consente a Cordelli di uscire vincitore da questo confronto con i coetanei è l'inserimento nel tessuto narrativo di una variabile prettamente spaziale attraverso il personaggio di Aki. La marea umana è quella delle generazioni: per dirla con Dante o con Thomas Eliot, essa ci si rivela con la consapevolezza che accanto a noi si è affacciata "sì lunga tratta / di gente, ch'io non avrei mai creduto / che morte tanta n'avesse disfatta"; allo stesso tempo, però, la marea umana coincide per Cordelli con la scoperta di un mondo enormemente più vasto che in passato: un mondo più grande non solo perché più interconnesso, ma anche perché più popolato.
L'Oriente è qui soprattutto una grande matrice: di storie e di persone, che di colpo, solo in forza del loro numero, ci obbligano a ripensare le nostre unità di misura e persino i nostri valori. In un mondo così denso di aneddoti che ambiscono a farsi essi stessi trame di altrettanti libri, anche la forma romanzesca non può che uscire stravolta da questo cambiamento di scala. Ed è pure per questo che Cordelli non chiede al lettore di ascoltare una storia, ma di condividere con la voce narrante un'esperienza, un ragionamento, un'accensione momentanea del pensiero o del desiderio.
Cordelli sceglie la via della rarefazione. L'effetto ipnotico del racconto è naturalmente anche un risultato della sua prosa: mai così curata, mai così avvolgente. Cordelli è un fanatico (ma piuttosto bisognerebbe dire: un virtuoso) della virgola. Gli scrittori che abbondano di virgole lo fanno generalmente con due fini opposti: come dispositivo per rallentare il ritmo della frase, quando ne aggiungono dove non sarebbero necessarie (e allora la virgola è un freno a mano tirato) o, viceversa, come sostitutivo di segni di interpunzione più pesanti, tipo il punto e virgola o il punto fermo, per costringere il lettore ad affrettarsi alla fine del periodo senza prender fiato. Se si dovesse legare ciascuno dei due procedimenti a uno scrittore italiano si potrebbero fare, a mo' di esempio, i nomi di Sciascia per il primo e Tabucchi per il secondo caso (ma qui il modello è Julio Cortázar). Con Cordelli le cose stanno diversamente. Cordelli inonda di virgole ogni pagina e al tempo stesso lascia che la virgola divori l'intera punteggiatura, aggredendo, per così dire, la sintassi normale da due direzioni opposte. Tuttavia, in La marea umana, solo in rari casi la virgola ottiene l'effetto di rendere più incalzante il periodo, perché i rapidissimi cambiamenti del soggetto diventano qui una trappola per il lettore, il quale, dopo aver preso l'aire, si trova per un istante sperduto: costretto a riorganizzare mentalmente il periodo per scandirlo, anche da un punto di vista ritmico, con la dovuta esattezza. Esattamente il senso di spiazzamento geografico e cronologico che, su un piano diverso, ci comunica l'incontro con il vecchio Azio e il nuovo Aki: da un altro tempo e da un altro spazio.
Le digressioni narrative e saggistiche, che sono uno dei tratti qualificanti della scrittura di Cordelli, ma che possono anche ostacolare la lettura dei lettori meno pazienti, in La marea umana diventano una necessità. Esse ci portano lontani dal centro del racconto per poi ricondurci periodicamente al filo conduttore della storia, esattamente come, su una misura più ampia, fanno i salti cronologici avanti e indietro nella vita del protagonista. Ma soprattutto le digressioni ripetono al livello dell'intreccio il medesimo sistema di pause e di interruzioni che è così essenziale per Cordelli, compreso il ricorso al trattino lungo con funzione puramente ritmica in conclusione di periodo e, più spesso, di capoverso (due esempi a caso: "Ma in tutta la mia vita non ho scattato una fotografia, se non in modo meccanico, perché richiesto da persona sconosciuta, o conosciuta cui ubbidivo"; "La odia come, poco dopo, avrei odiato la sua antagonista lassù, nel Veneto, nella casa delle sue vacanze, estate del 1964"). Così, se tanti dei comprimari che appaiono fugacemente per mezza pagina o per lo spazio di un capitolo rimangono in fondo soltanto dei nomi (cioè delle rifrazioni), non troppo diversamente dai personaggi illustri che incontriamo sulle targhe delle strade di Roma (altri morti, pure loro), questo avviene proprio perché La marea umana è allo stesso tempo un romanzo sull'esilio, sulla scomparsa ma anche sulla capacità di un passato ormai sepolto di guadagnarsi un'improvvisa, effimera e per questo fatua resurrezione. L'oceano, intanto, non si ferma.
Gabriele Pedullà
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