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Ci sarebbe molto da studiare, e rivedere, sul modo di scrivere e pubblicare romanzi in Italia negli anni immediatamente successivi al dopoguerra. I problemi degli italiani, in quel periodo, erano semplici ed immediati: fame, freddo, penuria (ma sembra essere cronica ancora oggi) di lavoro, analfabetismo, arretratezza culturale, povertà, difficoltà d’ogni tipo. Neorealismo ed esistenzialismo sembravano corrispondere a dei filoni di rappresentanza collettiva mediati dalle necessità d’una semidistrutta Europa; espressioni che, in poco tempo, si verranno però ad imporre come stilemi da salotto, nient’altro che moda. Quindi che, con un testo come questo, Ennio Flaiano possa aver dato l’impressione di uscire dal coro è di facile comprensione, data la fiorita scrittura. Ma oggigiorno un non so che di morbosamente retorico, pure se ci si rapporta ai canoni di quegli anni, aleggia tra le righe di questo suo unico romanzo. Dove ancora una volta vi è il non eroe che, sempre solo soletto, confligge con le sue idee, le sue paure, le sue debolezze, le sue idiosincrasie, la natura impossibile ed avversa, il caso ed il fato. Un uomo triste e nel contempo buffo a cui il destino riserva di sviluppare esperienze di vita distrattamente complesse e vagamente fantasmagoriche. Il testo è noioso, sebbene comprensibile di come possa aver fatto breccia tra i recensori del tempo. Ma c’era pure un Premio Strega da far esordire tra coriandoli, squilli di tromba e scoppi d’artificio. C. Matar
Ero molto curiosa di leggere l'unico romanzo di Flaiano, dopo l'esperienza col Diario degli errori. In realtà, la dimensione dell'aforisma e del mottetto era senz'altro più congeniale a questo intellettuale e quel testo è un capolavoro probabilmente non ripetibile. Comunque la prima parte del libro, dallo smarrimento fino all'omicidio di Mariam, è fantastica. Poi la narrazione si avvolge un po' su se stessa, si perdono le coordinate spazio-temporali (scelta voluta, immagino, ma che rende ostica la lettura) e tutto si fa un po' macchinoso. Non mancano comunque i momenti alti e il personaggio del vecchio abissino, solitario e ostinato guardiano della fossa comune, è memorabile. Anche l'ambientazione, una natura ostile e primordiale, in cui l'unico mal d'Africa possibile è la lebbra, lascia il segno. Un libro interessante anche in prospettiva cinematografica. Impossibile non ricollegare alcune scene visionarie a Fellini (il camaleonte è emblematico), così come le tematiche dell'incomunicabilità e dell'esistenzialismo a Antonioni, per i quali Flaiano fu, come è noto, importante sceneggiatore. In conclusione un testo non completamente riuscito, ma che intelligenza...
In un’Africa surreale e priva di ogni esotismo un tenente dell’esercito italiano vaga alla ricerca di un medico, guidato dal mal di denti. Si allontana dal campo, rimane solo, si perde. Hanno inizio così, per caso, le sue disavventure. Tempo di uccidere, primo vincitore del Premio Strega nel 1947, non è solo un’intensa allegoria della guerra, messa a nudo con ironica crudeltà, ma una proiezione ferocemente realistica di quello che poteva essere un colono italiano negli anni Trenta: alle macchiettistiche e bonarie rappresentazioni dei soldati italiani “brava gente” e al tronfio italico conquistatore di pulzelle poco più che bambine (leggasi Montanelli), Ennio Flaiano contrappone una maggioranza silenziosa: quella della media borghesia pronta a tutto pur di difendere la propria reputazione. Consigliato
Recensioni
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