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Descrizione


Per Piero Fassino, segretario del maggior partito della sinistra italiana, la politica racconta la vita e viceversa. "Politica e vita: due gemelle, certo molto litigiose, ma unite da un filo indissolubile." In questo libro egli racconta come sia nata e cresciuta e poi intensamente vissuta una "passione politica". Ma più che un'autobiografia, egli scrive una testimonianza: attraverso il racconto delle proprie esperienze, Fassino ripercorre le vicende della sinistra italiana degli ultimi trent'anni, dando vita a una sorta di diario di viaggio dagli anni Settanta del terrorismo e della solidarietà nazionale al conflitto Craxi-Berlinguer, dall'esperienza di governo del centrosinistra all'ascesa al potere di Berlusconi.
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Dettagli

2003
27 agosto 2003
428 p., Rilegato
9788817872416

Valutazioni e recensioni

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Federico
Recensioni: 4/5

...un libro che conferma le grande capacità politica di Piero Fassino, ma anche la sua grande umanità e sensibilità....chiaro e appassionante nel racconto....sicuramente istruttivo...grazie Piero....

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giacomo da livorno
Recensioni: 5/5

piero sei grande! un libro che suscita emozioni per chi come noi crede in un futuro migliore... la notte sta per finire sta per sorgere il sol dell'avvenire

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damio
Recensioni: 5/5

vai PIERO! come faremo senza di te! prodi non l'ha mai scritto un libro così, vai tu al suo posto a palazzo chigi; per Il Romano nazionale ci sono liberi tanti posti da sottosegretario....

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Voce della critica

È assai significativo che il segretario dei Democratici di sinistra, per ricostruire il passato prossimo di un partito che ha avuto molti nomi e un accidentatissimo percorso, scelga, pur non essendo certo sprovvisto di documenti oggettivi, il filo esile e fortissimo della memoria. Come se non ci fosse altra strada, oltre a quella soggettiva, autobiografica, e soprattutto generazionale, per rifornire di senso politico le cose che si sono srotolate insieme alle nostre vite. Dev'essere, questo, un segno dei tempi nostri. E lo specchio di una generazione politica che - non sempre narcisisticamente - raccontando si racconta.

Il libro di Fassino, grazie all'uso mai sfacciato della prima persona singolare, ottiene del resto un risultato nettamente migliore quanto a coinvolgimento dei lettori e leggibilità rispetto agli altri libri scritti in questi ultimi anni dai politici in carriera del suo e di altri partiti. Non è insomma un libro congiunturale e legato all'annuale Festa dell'Unità. È un libro vero e destinato a restare. Non che manchino evidenti reticenze e ingessate timidezze. Il sentimento di sincerità che tuttavia emana, oltre che da una scontrosa e schietta legnosità espositiva tipicamente piemontese deriva dall'avere Fassino probabilmente compreso che l'implacabile interferire di memoria e storia è la condanna, e insieme la forza, della sua generazione e in particolare di chi ha ricavato e trattenuto forti emozioni dagli eventi storico-politici. Questa comprensione conferisce sincerità anche al titolo del libro. Non così ruffiano come qualcuno potrebbe pensare e come forse è dal punto di vista dell'intenzionalità editoriale. Tutti noi, d'altra parte, non importa se non siamo politici di professione, non riusciamo - per passione - a toglierci dalla mente dove eravamo e cosa facevamo il giorno della strage di piazza Fontana, il giorno del rapimento di Aldo Moro, il giorno del fallito golpe che ha segnato la fine dell'Urss, e naturalmente l'11 settembre del 1973 e del 2001.

All'inizio vi è Torino, la scuola dai gesuiti, la media borghesia produttiva d'una volta, un padre partigiano, socialista e deceduto troppo presto. Nato nel 1949, Fassino diventa comunista nel 1968, all'indomani dell'invasione della Cecoslovacchia. Gli è piaciuta la coraggiosa, anche se largamente insufficiente, presa di posizione di Luigi Longo. Così come di Longo gli piace l'attenzione che presta, in un anno di grandi trasformazioni, ai giovani e ai movimenti. Insegnamento, quello di Longo, che Fassino sostiene di avere ricordato quando gli è capitato di ascoltare, in un invernale pomeriggio romano del 2002, il grido di dolore del non più giovanissimo Nanni Moretti. Grido di dolore che diventerà poi movimento del ceto medio riflessivo. Qui la memoria e la speranza si saldano. Nel 1975-76, infatti, il Pci è riuscito a intercettare politicamente il lavoro di svecchiamento della società messo in cantiere, con modalità talora radicali, appunto dai movimenti, e, soprattutto, nonostante la prudenza di Lama, dal sindacato. E proprio Lama, tra i compagni della generazione più vecchia, è, assai più di Berlinguer, il vero eroe di Fassino, che ancora rimpiange che sia stato Natta, e non Lama, a succedere appunto a Berlinguer.

Lo stesso Fassino, tuttavia, nel libro, dopo lo strangolamento della primavera di Praga, non evoca più l'Urss se non quando vi è l'avvento di Gorbacëv (1985). Leonid Breznev, morto peraltro nel 1982, non è mai, ma proprio mai, nominato. Né spazio ha, nei primi anni settanta, l'Indocina. Tutte cose che devono avere pesato più di quel che qui appare. È con tutta probabilità vero che la generazione di Fassino l'Urss l'ha più subita come un fatto che esaltata come un fine. Ed è senz'altro vero che tale generazione ha avuto maggior consonanza culturale e umana con Willy Brandt che con tipi alla Cernenko. Parlo ovviamente di quelli che erano dentro il Pci. E che si sono percepiti, senza poterlo proclamare apertamente, "riformisti". Termine che Fassino contrappone oggi non agli inesistenti "rivoluzionari" (nel Pci non ce n'erano più da lungo tempo), ma - eccellente definizione - agli "ideologici". Fassino è comunque un riformista che poco ha a che vedere - almeno così pare - anche con i cosiddetti "amendoliani", moderati in politica interna e filosovietici a oltranza, ancora negli anni dell'invasione dell'Afghanistan, in politica estera. E ha poco a che vedere anche con gli stessi "cattocomunisti", sul cui giudizio solennemente rispettoso nei confronti dell'Urss, ancora dopo il 1981 polacco, si veda ora Caro Berlinguer. Note e appunti ritrovati di Antonio Tatò a Enrico Berlinguer 1969-1984 (pp. 336, Ç 14,50, Einaudi, Torino 2003). All'Urss, dalla cosiddetta "destra" del Pci, era infatti delegato il presidio del socialismo e quindi si poteva essere più che moderati in Italia. L'intero Pci - vero ircocervo della politica italiana - è ormai, negli anni che vanno da Praga (1968) a Berlino (1989), un partito che, agli occhi di Fassino, di comunista ha solo il nome. Un nome che racchiude tuttavia appartenenze e idealità coltivate per settant'anni. Agli uomini come Fassino, caduto il muro, e attraversando la "cosa" dell'esasperatamente lungo 1990, tocca piuttosto, grazie all'iniziativa di Occhetto, far diventare il Pci quel che esso già è da decenni: la vera e pur tuttavia sempre incerta socialdemocrazia italiana.

Più che gli scenari della politica internazionale, peraltro presentissima nel libro (Internazionale socialista, Stati Uniti, Israele e mondo arabo, Cina, ex Jugoslavia, Unione Europea ecc.), sono però le vicende della storia italiana che hanno attirato l'attenzione dei giornali. Vediamo i punti più discussi. E cominciamo con la politica di unità nazionale riproposta nel 1973 da Berlinguer con l'espressione "compromesso storico" e con i corollari del "nuovo modello di sviluppo" e poi dell'"austerità". Fassino sostiene di averla a suo tempo accettata come strumento di legittimazione del Pci. Tale politica, come era accaduto alla Spd con la " Grosse Koalition ", avrebbe poi dovuto essere sostituita dalla democrazia dell'alternanza. Una notazione che si fa ricordare. Ma che solleva qualche perplessità. A parte il fatto che la Spd in Germania non aveva bisogno di essere legittimata, sembra, questa infatti una lettura troppo generosamente in sintonia con le stagioni successive. Tanto più che si ammette che l'alleanza con la Dc poteva anche essere utilizzata dai comunisti al fine di impedire la compiuta trasformazione socialdemocratica del Pci. Sul caso Moro, poi, vi è una difesa della fermezza e una denuncia dell'inefficienza dello stato, cui vengono collegati, pur senza alcuna dietrologia concreta, "dubbi mai sciolti". Per quel che riguarda i terroristi delle Br e delle altre formazioni, Fassino rivendica di essere stato tra i primi negli ambienti della sinistra a sostenere che non erano "neri verniciati di rosso", ma esponenti degenerati e criminali di un peraltro noto album di famiglia. Interessanti sono poi le pagine sul crepuscolo degli anni settanta: il grande sciopero alla Fiat del 1980, l'arrivo di Berlinguer a Torino, la marcia dei quarantamila. E poi sulla giunta Novelli, sempre a Torino. E anche sul caso Zampini, precorritore della successiva corruzione di massa.

A proposito della fine della politica di solidarietà nazionale, mi permetto però di rilevare che essa non divenne operante nel 1979 con le elezioni anticipate e la sconfitta elettorale del Pci, ma fu ufficialmente proclamata da Berlinguer, in seguito al tremendo terremoto in Irpinia, il 27 novembre 1980, a Salerno. Dunque trentasei anni dopo l'omonima svolta. Fassino opportunamente ricorda il commovente e straordinario aiuto portato dai comunisti, e il suo personale, alle popolazioni terremotate. Ma la scelta di Berlinguer apparve, nella circostanza, cinica e infelice. E oggi è perlopiù retrodatata e rimossa. Il giudizio di Fassino su Berlinguer è del resto ammirato e insieme coraggiosamente critico. A metà anni ottanta, a ogni buon conto, il Pci era una grande forza che non sapeva che direzione prendere. Soprattutto dopo la sconfitta del referendum sulla scala mobile (1985), promosso - sostiene Fassino - quasi solo per rispettare la volontà di Berlinguer, morto l'anno prima.

E veniamo alla personalità di Craxi, a proposito della quale Fassino sostiene che non vanno condivisi i giudizi di Berlinguer. Craxi, credo giustamente, viene invece giudicato, nel bene come nel male, un uomo di sinistra. Si sa, d'altra parte, che questa definizione non basta, ahimè, a trasformare chicchessia in un galantuomo. È sul tema della modernità che tuttavia si avverte la permanenza del complesso d'inferiorità "culturale" già presente nel Pci austero degli anni ottanta. Che allora reagiva abbaiando al craxismo. Laddove Fassino oggi reagisce riconoscendo, un po' acriticamente, come le intuizioni craxiane fossero contigue ai tempi che mutavano. Cosa sia la modernità - termine-trappola tra i più indefinibili - non ci viene del resto spiegato. Così come non veniva spiegato allora. Democrazia, sviluppo, riforme sociali, servizi? Plebiscitarismo, lusso, culto dell'effimero, edonismo? O tutte queste cose insieme? "Modernità" è sicuramente una parola fascinosa, ma va riempita di contenuti. Certo, uno studio ponderato sugli anni ottanta e sulla parabola di Craxi attende ancora di essere effettuato. Pieno di buon senso nel libro di Fassino è invece il giudizio sugli anni novanta e su Mani pulite. Spiace solo di veder spuntare, a un certo punto, la parola "giustizialismo". Equilibrata e serena è inoltre la valutazione sui quattro governi dell'Ulivo.

Torniamo ora al titolo del libro. Per concludere che la politica sembra, per Fassino, se mi è possibile parafrasare un autore oggi appartato come Karl Marx, non la passione del cervello, ma il cervello della passione. E che il suo è un libro da leggere. E da discutere. Non un pretesto per le tavole rotonde e i salotti televisivi.

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Piero Fassino

1949, Avigliana

Inizia la sua attività politica negli anni settanta e ottanta. Come giovane dirigente della segreteria nazionale del Pci gestisce la trasformazione del Pci in Pds. Dal 1994 al 2011 è alla Camera dei deputati, dove torna nel 2018. ha avuto diversi incarichi di governo: sottosegretario agli esteri e agli Affari europei, ministro del Commercio estero, ministro della giustizia. Dal 2001 al 2007 è leader dei Democratici di Sinistra, fino alla fondazione del Partito Democratico. Dal 2011 al 2016 è stato sindaco di Torino e dal 2013 al 2016 presidente dell’Anci. Autore di un’ampia produzione saggistica e giornalistica, presso La nave di Teseo ha pubblicato nel 2017 Pd davvero e Tav. Perchè si (2018) con Sergio Chiamparino.

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