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Poesie - Luis de León - copertina

Dettagli

1989
1 gennaio 1989
284 p.
9788820717636

Voce della critica


recensione di Grilli, G., L'Indice 1989, n. 8

La biografia di Luis de Le¢n, apparentemente così piana e relativamente scontata, date certe condizioni di storia e di cultura, riserva un fascino segreto. Nato in provincia di Cuenca nel 1527 Luis intraprese giovanissimo una doppia carriera: quella di professore universitario e quella di membro di un'importante congregazione religiosa, l'agostiniana. Fu dunque studente e poi insegnante a Salamanca, forse il maggiore centro di studi dell'impero ispanico, e prigioniero dell'Inquisizione a Valladolid. Difese da umanista l'esegesi biblica sui testi ebraici per convinzione, anche se nessuno dei suoi biografi trascura di ricordare le sue origini di converso. Fu protagonista del dibattito teologico che attraversa e informa la cultura del Cinquecento spagnolo. Subì ingiurie di colleghi malevoli, desiderosi di strappargli privilegi e prebende accademiche, ma forse anche convinti assertori di tesi diverse dalle sue. Mori nel 1591 di morte naturale. Era uscito vincitore da quasi tutte le prove della vita.
Ottenne l'assoluzione nel processo con un'abile conduzione della stessa carcerazione, che lo provò, ma non lo distrusse. Gli furono di aiuto la cultura letteraria, la meditazione, i libri e forse persino gli studi giuridici cui il padre avrebbe voluto indirizzarlo. Non gli mancarono, dunque, gli onori e i premi. Il successo all'università e nell'ordine gli venne senza avarizia. Le sue posizioni in campo teologico, opposte al pelagianesimo così come al molinismo, ottennero consenso ed almeno due delle sue opere sono diventate per secoli strumento di diffusione della cultura cattolica: il trattato cristologico sui "Nomi di Cristo" e il manuale de "La sposa perfetta", tradotti e ristampati a profusione. Persino le opere scritte in carcere, come certe versioni da Orazio, ebbero immediata fortuna grazie al S nchez ('el Brocense') che le inserì nei suoi commentari a Garcilaso. Certo le poesie in volgare si stamparono solo dopo la sua morte, ma godettero nel 1631 di un editore d'eccezione: Quevedo.
La vita di Luis corrisponde dunque all'intima qualità di un uomo capace di conservare l'equilibrio di fronte a pressioni esterne e di poterne da saggio alla fine governare gli esiti. Certo non immaginava il dotto professore, e il cristiano non s'aspettava, che una qualche sua proposizione avrebbe avuto fortuna davvero inaspettata. Tornato in libertà, volle riprendere le lezioni con un polemico "Dicebamus hesterna die". Alcuni secoli dopo la frase ancora aveva in Spagna il potere di sedurre l'operaio anarchico Salvador Seguì che l'impiegava, tra un arresto e l'altro, nei tormentati anni venti del Novecento per una sua rubrica giornalistica di pedagogia sindacale.
L'edizione delle poesie di Luis de Le¢n approntata da Oreste Macrì, non nuova, rappresenta in un certo senso il culmine di una lunga attività di critico del testo, di esegeta e di traduttore di Luis de Le¢n. Come è noto a chiunque abbia avuto tra le mani un libro di Macrì, i suoi amori intellettuali sono di lunga e fortunata durata. Classici o moderni, poeti o prosatori, gli autori di Macrì hanno tutti (o quasi tutti) una loro base in qualche scritto, in una traduzione, o intervento giornalistico già degli anni quaranta. Poi diventano libro tra il 1950 e il 1960; finalmente assumono il luogo di classici nel corso di una rielaborazione definitiva. Ebbene, le opere più suggestive di questo percorso, almeno a mio parere, sono sempre rispondenti ad una formula che, come nel caso dell'ultimo libro dedicato a Luis de Le¢n, attraversa i generi, è sintesi originale. Non si tratta infatti di uno studio esclusivamente diretto agli specialisti, anche se per rigore e compiutezza costituisce un punto di arrivo della ricerca ispanistica (come fu per lo studio su Machado, di cui ora tanto si parla per la concomitanza tra anniversario della morte del poeta ed uscita dell'edizione definitiva nei "Cl sicos Castellanos"). Né può a rigore parlarsi di opera di traduzione e di divulgazione: le opere di Macrì sono manifestazioni sì tutte inserite nel corpo stesso della tradizione italiana, in una linea che gli è congeniale, diciamo pure che è cordialmente affezionata alle ormai mitiche "Giubbe rosse", ma poi di fatto si fanno dialoganti, aperte al compromesso con i testi e con la storia.
Il volume "Poesie" di Fray Luis de Le¢n apre una collana, a cura di Mario Di Pinto e Laura Dolfi, che si propone di coprire uno spazio editoriale invero ormai consistente, uno spazio per tutt'altre vie, come si è visto sommariamente, intuito o anticipato da Macrì: quello di una cultura universitaria ormai tanto estesa, per crescita ed espansione demografica dell'istituzione, da finire per coincidere con una sezione importante del pubblico, inteso come classe generale di lettura. È perciò anche una riproposta dell'interpretazione di Macrì di Luis de Le¢n, come segmento significativo del "Siglo de Oro" spagnolo, e allo stesso tempo una riproposta della centralità dell'incontro tra poesia italiana e poesia spagnola nel Rinascimento europeo. È , dunque, libro per specialisti ma anche strumento di piacere per chiunque abbia interesse per la storia della cultura.
Questa intima interrelazione tra studio e testo (nella sua duplice essenza di testo critico e di versione italiana) è attingibile in ogni momento e si estrinseca in ogni parte del libro. Tra gli esempi innumerevoli cito quel passo del saggio che nell'apparenza di immediatezza e quasi di militanza nasconde un ragionare pacato e argomentato: "situazione analoga a quella del Petrarca, anch'egli alunno di Agostino, e qui Fray Luis apparirebbe un 'frutto tardivo' (direbbe Men‚ndez Pidal) dell'umanesimo europeo, ma quanto in sé splendido, autonomo!" (p. 31). Passo da collegare con quanto asserito qualche pagina avanti: "La lingua castigliana [...] si fa classica [...] di altissimo decoro e familiare popolarità" seguendo il modello di Garcilaso ed Herrera. Eppure mentre si afferma qui il primato della critica - il Rinascimento spagnolo appare come autonoma e originale variante dell'umanesimo europeo - si avanza in parallelo una giustificazione del gusto, una scelta poetica moderna.
Altissimo decoro e familiare popolarità sono i criteri che Macrì adotta in proprio nella traduzione. Questa naturalmente procede per sintesi. Così già nella prima ode, la celeberrima "Canzone della vita solitaria", il formalismo che giustifica la maniera e che unisce rinascimento e barocco nel "Siglo de Oro", si mitiga e si storicizza in uno dei luoghi critici di maggior impegno (vi è tornato di recente anche Francisco Rico). "Vivir quieto conmigo; / gozar quieto del bien, que debo al cielo" diventa nell'interpretazione, che è commento critico e contestualizzazione di contenuti e forma, "A me stesso presente, / goda il bene che devo al mio Fattore". Ma il procedimento può essere invertito. La versione di Macrì agisce come ulteriore depurazione formalistica ove il riferimento culturale appare al lettore - al lettore ispanista - con una carica forse eccessiva di informazione. È quanto si rileva nella strofa iniziale della complessa "Canzone alla nascita della figlia del Marchese di Alcanices" il cui è ancora forte l'ideologia della "Hispania" nuova e umanistica, sintesi di Aragona e Castiglia nell'intenzione di un Margarit, che tramuta 'alegria' in diletto. In analogia a quanto detto è ora il commento a ricondurre il lettore de "L'avarizia" a certi slittamenti tra erudizione e poesia. Luis mette Casso a governare in Persia anziché in Siria (p. 270); è possibile stabilire un antecedente al Lope de "La Dorotea" che addirittura ne storpia il nome di Creso, sempre per via di un oro senza misura?
Non voglio affliggere con ulteriori scandagli. Basti rammentare come nelle prime due strofe di "Al Ritiro" si affianchino le ragioni di una lettura che non cede al vigore interpretativo scrupoli da anima pavida (dal 'grave mal pasado' Macrì estrae il più veritiero e plausibile "tormento passato" in carcere) per sciogliersi in "dolce riposo, placido, beato; / tetto di paglia, dove / non dimorò nemica l'afflizione". Come era già stato detto, "in questa 'confianza' sta gran parte del segreto esistenziale del Siglo de Oro, il suo gioioso impulso creativo, il suo pragmatico ottimismo".

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