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recensione di Carchia, G., L'Indice 1997, n. 3
Le letture filosofiche dell'opera leopardiana hanno sempre insistito, fino agli ultimi anni, sul carattere antiidealistico e sulle ascendenze illuministiche del suo pensiero, interpretato perciò soprattutto come critica, negatività corrosiva, rifiuto gnostico del mondo. Continuando e approfondendo gli spunti antinichilistici presenti in talune recenti esegesi leopardiane (quella offerta, ad esempio, da Sergio Givone nella sua "Storia del nulla"), Arturo Mazzarella ci propone una lettura del tutto differente, sorprendente e inedita, di Leopardi. Al centro c'è l'idea che in Leopardi il problema della verità non appartenga a un orizzonte angustamente razionalistico, vada oltre gli schemi di qualunque categorialità soggettiva e strumentale.
"La natura non è materiale come la ragione" ("Zibaldone", 107). Sottolineando la vertiginosa fecondità del naturalismo leopardiano, Mazzarella mostra quanto sia fuorviante etichettare col termine di materialismo la riflessione leopardiana, sospettandola di scepsi e di relativismo. L'"incredulità" di Leopardi, in realtà, sfugge totalmente agli schemi più diffusi del materialismo settecentesco, non meno che alle formulazioni caratteristiche di ogni teologia negativa. Emerge allora la figura di un pensiero che non è più quello della rassegnazione e della sconfitta, bensì quello della malinconia erotica e produttiva.
Mazzarella arriva a delineare quest'immagine di Leopardi pensatore "affermativo" attraverso l'individuazione di una vera e propria "filosofia dell'illusione", posta nel cuore del pensiero leopardiano. Essa non ha, come talora si ritiene, un ruolo meramente compensativo, una funzione solo estetica. Tre sono gli snodi attraverso cui quella filosofia si viene elaborando. Il naturalismo leopardiano, innanzi tutto, vede l'assoluto, il principio delle cose, nel nulla come principio della pura possibilità, come inesauribile potenza originaria non legata ad alcun fondamento, né costretta in alcuno schema teleologico. Si tratta di un Dio che è, spinozianamente, "natura naturans", mai restringibile ai soli attributi conosciuti o accessibili all'uomo. Oltre il "limite" della ragione autoconservativa, oltre le categorie soggettive, Leopardi scopre, kantianamente per così dire, la pensabilità di un mondo ulteriore, costituito dall'inesauribile varietà dei possibili coi quali la natura ci sorprende. Ecco dunque, in secondo luogo, la nascita, a fronte di tanta potenza, del sentimento della meraviglia, capace di scuotere la ragione dal suo torpore dogmatico e di avviare la poesia e l'arte sul sentiero di una mimesi non più servile, bensì essa stessa inventiva e produttiva.
La limitatezza della "ratio" si dissolve in un più vasto orizzonte ultrafilosofico e ultrarappresentativo, che non significa antirappresentativo. Al di là dell'opposizione fra verità ed errore, in ultimo, si dischiude il regno più vasto delle apparenze e delle immagini. Qui verità e illusione non sono più termini che si escludono, bensì due modi di dire il medesimo. "Mai l'immagine potrà coincidere con la verità: rispetto alla quale costituisce sempre una manifestazione illusoria. Tuttavia non esiste, non può esistere, una verità senza immagini, un'idea senza parole". Nel nesso tra le verità e l'immagine è custodito il dialogo tra filosofia e poesia, dentro cui si cela il segreto dell'opera leopardiana.
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