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Dettagli

1998
1 gennaio 1998
360 p., ill.
9788820727574

Voce della critica


recensione Massenzio, A., L'Indice 1998, n. 9

Secolo di straordinario interesse, il Seicento inglese si presenta alle soglie del terzo millennio con nuove storie ancora tutte da raccontare. Torna alle stampe "L'ameno racconto di Meum e Tuum", pubblicato in Inghilterra nel 1639, poi dimenticato e recentemente ritrovato nella Folger Shakespeare Library di Washington da Angela Locatelli, che ne propone ora la traduzione con un breve saggio introduttivo e interessanti note esplicative.
Dalla North Library del British Museum di Londra proviene invece un testo del 1658 assai diverso per genere rispetto al precedente, tuttavia specchio fedele del pensiero rinascimentale inglese, anche in un ambito apparentemente marginale come quello della letteratura pornografica. Ecco dunque "La puttana rifinita" ("The Crafty Whore") di anonimo autore, tradotto e approfonditamente curato da Daniela de Filippis, disegnare uno scenario particolare, rivelatore di un'epoca.
Ma qual è la molla, l'elemento di forza propulsiva che sottrae al risucchio della dimenticanza queste pagine? La parola chiave è "modernità". Lungo il sentiero che conduce al grande romanzo realista, Henry Peacham, scrittore di corte piuttosto noto al tempo e figlio di un più famoso omonimo, intreccia la storia di Meum e Tuum, due gemelli discendenti di una stirpe storico-mitologica dalla quale ereditano la naturale propensione all'imbroglio, alla lite, alla lotta per la conquista del proprio personale interesse. Rivali fin dalla nascita, i due lasciano il paese d'origine in cerca di fortuna per affermare ciascuno la propria identità (come "ciò che è mio"), separandola e differenziandola rispetto a quella del fratello gemello ("ciò che è tuo"), salvo scoprirsi insieme complici qualora l'unione si mostri più vantaggiosa. Ha inizio dunque il viaggio picaresco che offre all'autore lo spunto per dipingere un vivace, spumeggiante album di luoghi e personaggi propri della società del tempo e d'intagliare su di essi la sua satira a volte pungente, spesso umoristica, ma sempre attenta al dettaglio della realtà. Seppellendo dunque l'eroe-cavaliere appartenuto al "romance" cortigiano, questi picari studiano e imparano presto i segreti dell'avvocatura, in tutto simili a quelli della truffa sotto parvenza di legalità, e si aggirano per l'Inghilterra seminando discordie e inganni.
Loro parente stretta appare a questo punto l'abile prostituta (non a caso) romana Taide di "The Crafty Whore", che narra all'amica Antonia il suo apprendistato fino al conseguimento della maturità e rifinitezza nella pratica della prostituzione, qui vera e propria arte del raggiro con cui schiere di spasimanti assoggettati alle sue grazie finiscono col cedere laute ricompense: ora vestiti, ora denari, cene, appartamenti e ogni sorta di godimento traducibile in moneta sonante. Se là era la parola, qui è la bellezza a farsi strumento di "simulazione "di verità e virtù, e insieme merce di scambio, attrezzo del mestiere, fondamento stesso della professione.
Per comprendere in pieno il valore dell'opera, tuttavia, occorre raffrontare a questo il dialogo della terza giornata dei "Ragionamenti "di Pietro Aretino (di cui "The Crafty Whore" è naturalizzazione), come fa de Filippis inserendolo in appendice. Si pongono in evidenza in questo modo, nei dettagli, le differenze, i cambiamenti sottili ed eclatanti operati dall'anonimo, rivelando in controluce la mentalità peculiare di un paese, l'Inghilterra assai prossima al libertinismo della corte di re Carlo, il "merry monarch", e tuttavia saldamente ancorata all'ideologia puritana, invincibile freno censorio che, pure nel campo della letteratura pornografica, impone un taglio moraleggiante alla narrazione, un'inevitabile finalità etica qui spesso motivo di dissonante ipocrisia.
Nella dinamica dei riflessi fra la corte italiana e quella inglese la raccolta di saggi intitolata "Shakespeare's Italy" offre una nuova analisi e un notevole contributo pubblicato oltre Manica da studiosi italiani. Il testo indaga le ragioni della predilezione di tanti drammaturghi elisabettiani e giacobini per gli scenari di città come Firenze, Verona, Venezia, puntualizzando il ruolo strutturale che queste scelte topografiche implicano all'interno delle loro opere.
In quella che Mariangela Tempera, studiando lo "stage-world" di Webster, ha definito "rhetoric of poison", ad esempio, bene si focalizza il concetto della frattura tutta secentesca tra ciò che è e ciò che appare, e che proprio nell'immagine del veleno, sostanza spesso impalpabile, invisibile, trova una sua identificazione particolarmente funzionale a più livelli, incluso quello linguistico, per cui le parole diventano pericolosi strumenti di mistificazione o alterazione della verità. La stessa Angela Locatelli, inoltre, analizza il "fictional world "di "Romeo and Juliet", evidenziando come Verona possa servire da specchio alla realtà inglese del tempo e soprattutto all'emergente Londra, e contribuire al processo di "mythmaking" della capitale, attraverso il profilo che ne delinea l'autore, misto di ammirazione e disprezzo.
Il fascino perverso esercitato dall'Italia, o meglio dallo stereotipo che di essa nel tempo si era creato, doveva dunque influenzare autori come Webster, Jonson, Middleton e non ultimo Shakespeare. Questa terra di intrighi, corruzioni, inganni, passioni e sensualità sfrenate, "primitive", diventa il luogo "altro "per eccellenza dove (come accade anche in "The Crafty Whore") proiettare debolezze e degenerazioni dell'umana natura che percorrevano in lungo e in largo l'intransigente Inghilterra, per osservarli, più facilmente da lontano, e filtrarli non troppo esplicitamente attraverso la lente della critica e della condanna. Artificio - questo - particolarmente evidente anche in un'opera come "Women beware Women*, all'interno della quale Zara Bruzzi e A.A. Bromhan precisano sotterranei parallelismi tra i protagonisti del dramma, i personaggi reali gravitanti attorno al ducato di Francesco de' Medici, e la corte di Giacomo I.
Ciononostante, lo spirito che caratterizza la narrazione dell'anonimo e di Peacham è ancora un altro. Anche se l'impianto dell'"Ameno racconto" è costruito nella forma della satira, e il dialogo pornografico vuole passare (solo in apparenza) per una condanna del vizio e ammonimento ai giovani, in modi diversi ma in entrambe le opere la critica si stempera nella comicità, nella risata bonaria, o nell'ironia. Il ritratto che i due testi contribuiscono a delineare è quello di un'intera società, dei suoi nuovi eroi e modelli di pensiero che troveranno evolvendosi compiuta espressione nel romanzo settecentesco. Lontanissimi dall'integrità dei pellegrini medievali, questi personaggi-picari-"rogues" rivelano la capacità nuova di destreggiarsi in situazioni difficili, di volgerle al proprio favore, di provocarle, anzi, intuendo a portata di mano un possibile profitto o un piacere desiderato. Per questo intravediamo Peacham sorridere compiaciuto tra una sferzata e l'altra ai gemelli, infaticabili artefici della propria fortuna. E malgrado l'ingegnosa Taide al fondo del libro decida d'abbandonare il campo e dichiari d'essersi pentita, d'aborrire il vizio e di avere ferma intenzione di ritirarsi a vita in un convento, pagando così il suo tributo a una vaga moralità, parrebbe di vederla in realtà lanciare una strizzata d'occhio oltre la pagina, sfrontata e intrigante, già pronta a conquistare una nuova preda, ammiccando a uno sconcertato, divertito, magari interessato lettore.

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