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Le storie sono finite e io sono libero. Sviluppi recenti nella poesia di lingua tedesca - copertina
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2003
1 gennaio 2003
320 p., Brossura
9788820735234

Voce della critica

LE STORIE SONO FINITE E IO SONO LIBERO

Sviluppi recenti nella poesia di lingua tedesca

a cura di Maurizio Pirro, Marcella Costa e Stefania Sbarra

pp. 308, Ç 21,50,

Liguori, Napoli 2003

Ventun giovani studiosi italiani presentano altrettanti poeti tedeschi fra noti e meno noti, tutti nati fra la metà degli anni cinquanta e la fine dei sessanta ed entrati in scena dopo il 1980 - grosso modo la generazione dopo Enzensberger e Jandl - con una scelta di due o tre testi, in originale e in traduzione, una nota bio-bibliografica e un saggio di una decina di pagine, che in molti casi è una vera e propria micromonografia e uno stralcio di storia letteraria che si apre sul Prenzlauerberg berlinese, la Wiener Gruppe con H.C.???>Artmann e K??? Bayer e la Neue Subjektivität con R.D.??? Brinkmann e N??? Born. Presentare un autore, sulla base di qualche testo esemplare, comporta qualche difficile corvée fra particolare e generale e qualche effetto di troppo pieno, ma la mappatura è riuscita e questo dialogo a più voci è utilissimo a chi, germanista o no, voglia farsi un'idea di dove va oggi la poesia tedesca nell'ex Est, nell'Ovest e in Austria, e anche della ricerca della giovane germanistica italiana nel campo della poesia. Da rimpiangere è solo l'assenza di un indice dei nomi.

Il titolo, felicissimo, è tratto da un testo di D??? von Petersdorff (curato da Poggi): che le storie sono finite è probabile sia vero e non è certo una novità - difficile raccontare ancora, ossia localizzare un evento nel tempo e nello spazio -, che però ne venga una liberazione e una nuova leggerezza è da vedersi. Su quasi tutti questi autori pesa ancora il fantasma dei crimini nazisti e su quelli originari dell'Est anche l'esperienza recente del comunismo: i tedeschi non hanno - questo li differenzia da altri europei - un rapporto disteso con la loro lingua, che negli ultimi sessant'anni è stata per due volte inquinata e compromessa da linguaggi di regime. E poiché tale dato storico va ad aggiungersi al generale trauma novecentesco che la lingua è mistificazione (vedi, in area tedesca, già Nietzsche in Verità e menzogna in senso extramorale del 1872 e poi il forse sovrinterpretato Lord Chandos di Hofmannsthal del 1901), non c'è da meravigliarsi che le riserve sulla langue e a maggior ragione sulla parole poetica siano in questi poeti così drammatiche. "L'idioma tedesco è una lama nel collo", scrive U??? Kolbe (curato da S??? Sbarra): "Essere solo ed essere tedesco / a Roma, una guerra nel cuore (...) qui sei così tedescamente solo come in nessun'altra città". E questo malgrado ormai vacillino anche le identità linguistiche nazionali e i poeti d'oggi siano in gran parte, e non per caso, anche traduttori professionisti di poesia straniera.

Ha ragione la prefatrice Anna Chiarloni che sintetizza: natura pressoché assente o ridotta a bonsai o a euroquota agricola o relegata in qualche fugace haiku, resiste, sintomaticamente, pressoché solo nella figura della neve, il freddo, il non-colore che tutto ricopre. Onnipresente il corpo, tema ereditato dagli anni settanta, ma senz'investimento erotico. Basterebbe a confermarlo il caso di D??? Grünbein (P??? Quadrelli) con le sue chirurgie e anatomie e i suoi poveri animali da circo e da zoo e con la sua ultima raccolta che, incentrata sulla figura di Cartesio, fondatore della fatale, raggelante scissione fra la nostra mente e le cose, s'intitola Della neve . Una sorta di "glaciazione", di cui si mi pare si parli tuttavia anche a proposito della lirica italiana.

Ossessivo è in questi poeti il tema della lingua: dall'ossessione si può evadere da funamboli, come fa un Th??? Kling (M??? Brambilla) con le sue "installazioni linguistiche". Chi però non è nato giocoliere o iconoclasta e tira all'assoluto fa fatica a sottrarsi al campo magnetico dell'ultimo grande di lingua tedesca, Paul Celan, sezionatore della parola, propugnatore del silenzio. E di questa vistosa presenza celaniana rendono conto P??? Salabé (su P??? Waterhouse) e M???>Lumachi (su M??? Beyer). Salvo che da ebreo profondo Celan non può mai rinnegare la parola: se è andata in bocca ai nazisti ed è in bocca ai criminali di tutti i tempi, per lui, come per Benjamin, la parola però è o è stata o potrebbe essere in potenza anche quella divina. Però il tema della lingua ha fatto il suo tempo e sta diventando, temo, un déjà vu un po' insopportabile. Un déjà vu è pure quello che F??? Tucci (su K??? Hensel) chiama appropriatamente il "maledettismo": ossia l'io che condanna il presente in blocco. Il "maledettismo", così spiccato nei poeti tedeschi, anche se certo non loro esclusiva, richiederebbe un'analisi a sé. Se da un lato i tedeschi sono la coscienza dell'Europa, tante volte ci viene da invocare qualche nuovo illuminato e un po' diabolico Voltaire che dica: adesso basta. E qui non ci soccorre, mi pare, nemmeno l'ultimo Enzensberger, col suo ormai astrale distacco dal mondo.

Forse il disastro culturale, politico, ambientale in cui abitiamo è comunque troppo grande perché qualcuno, tedesco o no, riesca a trarne poesia: è una nuova Auschwitz, meno sanguinosa, anzi del tutto compatibile col benessere diffuso. Il troppo disastro sappiamo bene che non trova espressione nell'arte, perché non permette distacco, e giusto un'antologia come questa fa riflettere sull'impasse in cui si trova la poesia - che in qualsiasi lingua è la testa di ponte dell'esprimersi letterario. O gioca o si lacera le vesti o sega il ramo (la lingua) su cui sta posata, difficilmente però la poesia recupererà un candore del sentimento (vedi la prova di prosa poetica di M??? Donhauser, che fa difficoltà, mi pare, anche al suo commentatore P??? Scotini, a mio avviso più a suo agio con il tanto più bravo J??? Koneffke).

Ma c'è un'altra questione non meno interessante: oltre a fare versi questi poeti, per la maggior parte, teorizzano - spesso però su un gradino un po' più basso. Non ne viene granché dall'apprendere, per esempio, che "il lavoro di accerchiamento dell'oggetto si compie soprattutto come atto linguistico" (Donhauser), che per ??? Oleschinsky da mesi tutte le fantasie poetiche hanno a che fare con la polvere dei cantieri della nuova Berlino e che "gli stimoli rimbalzano contro un corpo quasi non più percepito come un io", o che attraverso le sue poesie ??? Franzobel giunge a una nuova conoscenza del mondo esterno. Con gli esempi si potrebbe continuare, e ci si domanda se non sia meglio che riflessione e creazione restino invece separate.

Poi, per tutt'altro verso, sarebbe bene che la lingua della critica non corresse lo stesso rischio della poesia, di restare negli scaffali dell'esoterico. Come ben dice Salabé nel saggio su Waterhouse, "l'estrema espressione della parole rischia di produrre un idioletto comprensibile solo al parlante". Il commento non dovrebbe essere più esoterico, oscuro, tecnicistico del testo che esamina, rendendolo più complicato anziché più chiaro.

Quanto al "piacere del testo", i giudizi si sa che sono soggettivi. Le poesie più "belle" - se per intenderci possiamo usare questo vocabolo elementare - sono per me Tempelhof Airfield di Oleschinscki, Vineta di Kolbe, La bicicletta gialla della posta di Koneffke, Ottica fisica II di ??? Schrott, Come resero navigabile il giorno di ??? Jacobs che si taccia da se stesso d'"epigonismo senza vergogna" (ben detto, ma chi ci garantisce che non sia anche questa una posa?). Lo sperimentalismo fa da un pezzo parte dei canoni letterari, l'apoteosi del quotidiano propria degli anni settanta non è, come osserva Jacobs, andata molto lontano perché le mancavano fede e umiltà, e l'appello dello stesso Jacobs a recuperare lo "stupore" davanti alle cose echeggia il "dorme un canto in ogni cosa" di beata ascendenza romantica tedesca. È quasi certo che, dopotutto, solo dall'ascolto di questo canto possa germogliare la poesia, e non da certe prodezze neobarocche e dalla dissacrazione sistematica del vivente. Però la storia è storia e indietro non si torna.

In ogni caso l'impressione è che certi poeti - i più validi? - "ispirino" il critico più di altri: così, mi pare, è avvenuto negli interventi su Kolbe, Koneffke, Grünbein, Schrott, von Petersdorff, Jacobs.

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