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Chi conosce la scintillante prosa di L. Santucci e ne ha apprezzato lo slancio, i voli pindarici della fantasia, le altrettanto rigogliose germinazioni linguistiche innescate dal sostrato antico dell’italiano, troverà in questo libro il contesto forse più idoneo per metterle in scena e farle crescere ulteriormente. È d’uopo ammettere che dopo i racconti medievali de “Lo zio prete”, l’imprevedibile viaggio sulle verdi profondità oceaniche di “In Australia con mio nonno”, immaginato a partire dalla semplice circostanza di una visita ai giardini pubblici di Milano di un nonno e di suo nipote, dopo l’applaudito “Il velocifero”, dopo l’“Orfeo in paradiso” in bilico tra realtà e realtà spirituale e occulta, tra vita e morte, “Il ballo della sposa” riunisce in sé due ingredienti molto amati da S., che sono l’antichità, in particolare quella legata al passato cristiano, e la presenza dei bambini. Protagonisti, qui, sono proprio i giovanissimi che imitando seriamente i grandi partono anch’essi per una loro crociata molto particolare. Vanno dunque con mezzi di fortuna, e camminando, dall’Italia verso Gerusalemme, per liberare la tomba di Gesù dagli infedeli, i saraceni o musulmani. Strada facendo, però, il loro intento (che non è meno sanguinario di quello dei crociati) viene poco alla volta ‘dirottato’, prima dalla figura di un vecchio traghettatore, ispirato da un forte spirito francescano, poi, da altri (fortuiti?) incontri. In primo luogo, quello che apre il libro: cioè l’incontro di Ugo (a capo della piccola crociata di bambinelli) con Agnes, la bambina che lo vorrà sposare ancor prima di diventare donna perché istintivamente sente che quel ragazzino burbero, ladro e indisciplinato nasconde il cuore di un uomo giusto e amorevole. La scrittura è quindi sostenuta e attraversata da due linee di forza: la missione in Terra Santa e l’amore che sboccia tra Ugo e Agnes. Due fili fortemente intrecciati che condurranno lei nel monastero di Betania e lui, schiavo di Giabir, ma...
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