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recensione di Tabacco, G., L'Indice 1996, n. 1
Il Pepe, ben noto medievalista di sicura laicità ideologica, si impegn• d'improvviso nel 1945, dopo la liberazione di Roma, in una vivace attività etico-politica, fra cui di particolare significato la traduzione e il commento del Sillabo. L'opera voleva essere memoria critica di un momento, alla fine del 1864, dell'estrema intransigenza del papato contro la moderna civilitas, ma non aveva intenti polemici: intenti che, a fronte di recenti rivalutazioni del Sillabo, che giustamente stupiscono il curatore Giosuè Musca, sono indubbiamente vivi in questa riproposta. Premeva al Pepe di chiarire il contributo storicamente offerto dal liberalismo laico al rinnovamento del pensiero cattolico in direzione correttiva dello spirito reazionario, di lontana origine medievale e tridentina, culminato nel secolo scorso nella pubblicazione del Sillabo. Fondamentali sarebbero state, per quel rinnovamento, l'esperienza sia della cultura francese, sia della cultura italiana, e il loro convergere in una comune fiducia nella fecondità del metodo liberale, per la sua capacità di assorbire in sé, in virtù della sua tolleranza, i movimenti di pensiero più diversi e di trasfigurarli in strumenti di progresso civile e razionale.
Occorreva anzitutto meglio comprendere quel momento storico e a tal fine l'autore indagava sulle origini ideologiche del Sillabo nell'età della Restaurazione: l'ultramontanesimo autoritario degli oppositori cattolici alla reviviscenza del principio gallicano dell'elezione regia dei vescovi e a ogni ingerenza dello Stato nella sfera del sacro. Rammemorava la sorpresa di lì a poco provocata dalla rivoluzione parigina del 1830 con la connessa libertà di stampa, donde l'indignata condanna, da parte di Gregorio XVI nel 1832, di questa libertà: "Deterrima illa ac numquam satis execranda libertas artis librariae ad scripta edenda quaelibet in vulgus". Narrava poi la tormentata vicenda del rosminianesimo, con la sua segnalazione delle piaghe della Chiesa, ma con il suo pigro invito alla mansuetudine rivolto agli oppressi, e percepiva anche nel cosiddetto cattolicesimo liberale l'ambiguità persistente, ogni volta che il cattolico liberaleggiante aveva in realtà auspicato una libertà tutta tesa alla salvaguardia del solo agire ecclesiastico. E informava sulle fonti del Sillabo negli anteriori documenti papali, così come sulle reazioni violentemente contrastanti che esso suscitò. Si interessava parimenti alle discussioni che sorsero sul valore ufficiale attribuito al Sillabo negli ambienti ecclesiastici, e segnalava il tentativo compiuto dal giurista Paul Viollet, contro le interpretazioni correnti, per scagionare il papato dalla responsabilità del Sillabo, in considerazione del fatto che la sua composizione non era stata propriamente del papa e che non ne era stata effettuata la promulgazione solenne: "Bien loin d'y voir un acte du magistère infaillible du pape, on ose à peine dire que soit un acte du pape".
Ma il Pepe reagiva contro ogni tentativo di mitigare il significato intransigente della volontà papale espressa nel Sillabo, pur ammettendo che le condanne non erano state pronunciate ex cathedra e risultavano pertanto suscettibili di modificazione nel tempo. Riaffermava anzi che, pur restando in più punti "sempre vero e dolorante il contrasto tra cattolicesimo e civiltà moderna", su altri punti esso si era attenuato o addirittura rovesciato in una collaborazione proficua fra le due culture, laica e confessionale, salvo sempre il principio della separazione fra Chiesa e Stato. Ma su un punto, "di immensa gravità", il Pepe giudicava impossibile allo Stato di transigere e alla cultura laica di scendere a compromessi, ed era il regolamento delle scuole pubbliche, senza intromissioni di alcun'altra autorità. Si trattava infatti di impedire che violenza alcuna fosse fatta alla libertà di coscienza, di fronte alla pretesa ecclesiastica di conservare il dominio sulle coscienze attraverso la formazione intellettuale.
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