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"Vostra Signoria illustrissima (
) mi tenga per vero suo servo egreggio, filosofico e non cortigiano né vacantello": si definisce così Tommaso Campanella, scrivendo al francese Fabri de Peiresc nel 1635, contrapponendo la superficialità delle corti alla serietà della filosofia. E come filosofo egli si presenta nel suo epistolario pubblicato ora integralmente, sia nel lungo periodo della carcerazione napoletana, sia durante il soggiorno romano, sia negli ultimi anni dell'esilio francese fino alla morte. In nome del sapere filosofico, allora, le lettere più impegnative assumono la loro forma: cataloghi ragionati di libri; apologie indirizzate ai potenti, che presentano l'autore nei panni di Socrate ("per esser più pio degli altri, fu stimato empio") o di una figura profetica ("la ribellion mia è come quella d'Amos profeta"); memoriali che accumulano "promesse mirabili" fatte "per beneficio del Cristianesimo", palesamento di miracoli, denuncia di false credenze astrologiche, istituzione di una nuova monarchia, progetti per "accrescer l'intrate" e ancora opuscoli o libri dove la filosofia ha sempre il dovere di realizzare una "riforma universale". È questa fede nella forza del pensiero a conferire notevole fascino alle lettere di Campanella, con la loro ripetitività ossessiva, con le loro ricorrenti polemiche (contro ogni forma di machiavellismo e contro gli intrighi politici), con il loro distendersi nelle misure ampie del trattatello. Non a caso, allora, l'appassionata testimonianza epistolare di questa carriera culmina evocando le vicende editoriali in terra di Francia: la stampa o la ristampa delle opere campanelliane più importanti è l'emblema conclusivo di un'esistenza dedicata alla ricerca dell'assoluto, alla contemplazione del sole divino della verità.
Rinaldo Rinaldi
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