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Quattordici autori e il reportage di un fotografo (Ennio Brilli) unico sguardo di speranza puntato sui volti promettenti una vitale ibridazione multietnica raccontano la scuola a partire dalla loro esperienza di insegnanti. Ne risulta il quadro frastagliato e sconsolato di una "scuola sotto le macerie", metaforiche nello scritto di Andrea Bajani, e ben drammaticamente materiali nelle pagine di Paolo Capodacqua sul dopo terremoto a L'Aquila, dove il preside che ha ricevuto dal ministero un cellulare con 5 euro di ricarica riunisce un consiglio di classe di una scuola che non c'è per un surreale scrutinio in cui si dettano voti che non ci sono ad allievi dispersi, "promossi alla vita la notte tra il 5 e il 6 aprile 2009".
Nel paesaggio disastrato, tra studenti "diventati clienti" e genitori protettivi e invadenti (Bajani), precari interscambiabili appesi a graduatorie permanenti (Chiara Valerio), veterani senza cattedra a coprire classi border line in edifici cadenti (Cosimo Argentina), obiettivi didattici dal sapore di "ghirigori intellettualistici" (Angela Flori) e corrosioni del servizio pubblico che fanno rimpiangere la vecchia maestra classista (Massimo Raffaeli), non senza il tocco di costume intramontabile del docente universitario frustrato che cerca consolazione nell'avventura sessuale con la giovane studentessa (Mauro Francesco Minervino), i soli luoghi in cui sembrano mantenersi vivi il senso e la funzione dell'insegnare sono, forse non a caso, la scuola elementare (Marco Moschini) e le realtà variamente marginali della scuola in carcere in cui ci si appassiona alla lettura dei poeti greci (Edoardo Albinati), della Città dei ragazzi un tempo popolata dagli "sciuscià" italiani e oggi da "minorenni non accompagnati" provenienti da tutto il mondo (Eraldo Affinati), o il doposcuola intrecciato all'esperienza di osservazione e ascolto del maestro di strada nei quartieri napoletani (Marco Rossi-Doria). Qui, sulle frontiere dell'esclusione e degli alfabeti indispensabili, il mestiere dell'educatore resiste nell'ostinata reinvenzione di relazioni personali concrete.
Pervade tutti i racconti una grande e malinconica solitudine dell'insegnante, come spaesato nel ruolo anacronistico di una sfida impari ai modelli pubblicitari e televisivi trionfanti cui "si aggiunge", osserva Filippo La Porta nella prefazione, "una crescente, immedicabile indifferenza della società nei confronti di un'istituzione di cui non si percepisce più il valore né la specificità". Nella scuola, pur sempre "un luogo in cui si guadagna poco e non si fa carriera e queste sono cose preziose di questi tempi" (Franco Arminio), solitari ed episodici appaiono anche i momenti gratificanti, le occasioni in cui si avverte l'accensione di una sensibilità civile, come sui temi della Shoah durante una gita scolastica (Emiliano Sbaraglia), o della mafia assistendo a una rappresentazione teatrale su Falcone e Borsellino (Enrico Capodaglio). Senza interlocutori risultano gli interrogativi e i resoconti delle voci narranti, dall'interno di un'attività scolastica vissuta come il laboratorio antropologico di un confronto generazionale diretto, tra singoli adulti e strani adolescenti. Ciò che anche questo virtuale "consiglio di classe" testimonia, e in qualche modo denuncia, è la mancanza di un contesto, di finalità socialmente condivise dell'istituzione, di politiche che non la frammentino in "disiecta membra", come scrive Raffaeli, "spezzoni alla deriva, in perpetua ricerca di senso e di legittimazione". E l'appiattimento delle istituzioni sulle persone che la incarnano, siano essi riparatori o artefici di macerie, è una storia che ci interroga più in generale sulla mutante sfera pubblica e vita civile del nostro paese.
Santina Mobiglia
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