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Psicoanalisi e verità. Prospettive psicoanalitiche
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1996
1 giugno 2000
Libro universitario
256 p.
9788826307787

Voce della critica


recensione di Mancia, M., L'Indice 1997, n. 2

Che verità può scoprire la psicoanalisi? Questo è uno dei problemi epistemologici attualmente più vivi nel dibattito che investe anche la scientificità o meno della psicoanalisi. Sono passati molti anni da quando Freud pensava all'analista come a un archeologo che recupera i frammenti di una vita affettiva passata e dimenticata. Il lavoro analitico permetteva l'attribuzione di significato a un'antica esperienza attraverso una ritrascrizione della memoria, processo questo definito da Freud "Nachträglichkeit".
La verità narrativa fatta di libere associazioni e sogni poteva, per Freud, confondersi con la verità storica o emotiva del paziente che doveva essere tenuta separata dalla verità materiale o reale. È da questo concetto freudiano, che origina dalla famosa lettera del settembre 1897 a Fliess, che la verità emozionale prende il sopravvento su quella reale e parte tutta la speculazione psicoanalitica più attuale. Sul-
la base del transfert e del controtransfert, l'analista "costruisce" ipotesi sulle modalità relazionali del paziente, sulle sue ansie e difese e sullo stato affettivo dei suoi oggetti interni. Queste ipotesi, che possono essere narrate sotto forma di interpretazioni, non sono mai "vere" in senso assoluto, ma sempre in senso molto relativo. Esse sono tanto più vere quanto più si avvicinano alla realtà emotiva del paziente e quanto più sono in grado di conferire a questa realtà dei significati transferali (e in una certa misura, quindi, anche ricostruttivi rispetto alle esperienze infantili del paziente) specifici e profondi. Quindi, l'esattezza di una costruzione e dell'interpretazione che la narra non sta tanto nel riscontro storico reale, ma piuttosto nella sua capacità di cogliere gli aspetti metaforici del transfert in quel preciso e fuggevole momento relazionale.
A questo dibattito partecipa oggi con competenza e profondità Wolfgang Loch che, con questo libro, propone come definizione per la psicoanalisi quella di un'esperienza capace di creare un'"autocoscienza riflessiva", capace cioè di dare senso a un'esperienza in quanto è "solo nel senso [che] il soggetto trova se stesso".
Loch propone in questo libro due concetti di verità in psicoanalisi: una intesa come "fatto storico" corrispondente all'oggetto e l'altra come "senso" da attribuire a determinati fatti. Il concetto di verità resta comunque relativo e inteso nella tradizione ebraica come roccia o terreno sul quale l'individuo può fermarsi, essere contenuto e sul quale può seminare. Dice Loch: "La verità vista come senso è qualcosa che precede la verità scientifica perché il senso sta a significare il verso-che-cosa, il Telos del progetto primario della comprensione dell'essere". Il senso che la psicoanalisi scopre ha dunque un profondo significato antropologico in quanto intrinseco all'esserci. Ciò conferma quanto dice Merleau-Ponty, che gli esseri umani sono condannati a trovare un senso alla loro esistenza. Ma questo senso non ha una base monadologica poiché scaturisce dal rapporto del soggetto con la realtà e con il mondo, dunque presuppone una relazione con l'altro.
I due compiti fondamentali dell'analisi, la ricerca della verità e l'attribuzione di senso, sono ovviamente strettamente collegati e condizionati dalla risoluzione del complesso di Edipo, inteso come una struttura che gestisce le pulsioni e come un dramma che facilita o meno la scoperta della verità. Ma - si domanda Loch - come riusciamo a cogliere questa verità? Attraverso quali metodi? La risposta, forse un po' semplicistica, di Loch è di affidarci alla libera associazione. È attraverso di essa che per questo autore accediamo a una realtà che non corrisponde alla nostra realtà materiale o esterna, ma piuttosto a una realtà interna a noi o "realtà psichica". Ne consegue che nella relazione analitica la verità, mai assoluta, emerge nel contesto di una relazione da un consenso reciproco tra paziente e analista, dal momento che l'analista deve cogliere dalle comunicazioni verbali e non verbali del paziente gli elementi emergenti della sua vita psichica e da questi trarre nuovi e originali punti di vista. È chiaro che la costruzione del senso riesce in modo completo solo quando questi elementi della vita psichica si inscrivono nella parola, entrano cioè nella sfera del linguaggio e vanno incontro a un sistema di significazione. Loch cita qui Wittgenstein quando dice che è solo il linguaggio a darci la possibilità di "comprenderci l'un l'altro", e la comprensione dell'"atto linguistico" permette un reciproco consenso e in ciò consiste la verità.
Questo è anche in linea con ciò che dice Wittgenstein in "Filosofia" (Donzelli, 1996) che tuttavia solleva delle perplessità proprio perché la grande sfida della psicoanalisi è quella di poter dire anche cose che il linguaggio non può dire. Mi riferisco qui a quella modalità comunicativa che è l'identificazione proiettiva, descritta dalla Klein nel 1946, e che è centrale, a volte più del linguaggio, per comunicare quei sentimenti che non possono essere messi in parola.
Comunque la psicoanalisi non scopre verità, ma le "costruisce" al servizio della coerenza del Sé. Queste costruzioni avvengono nel presente ("hic et nunc") dell'incontro, e le interpretazioni saranno tanto più "vere" se saranno capaci "di cogliere le forme di comportamento di cui il paziente si serve come modalità per mantenere la sua relazione all'oggetto". Le interpretazioni che rispondono a questi criteri di verità permetteranno allora al paziente di formarsi "una nuova coscienza riflessiva, una nuova capacità di giudizio critico e un nuovo modo di realizzazione dell'esistenza".
"Il compito analitico consiste - insiste Loch - nella ricerca del senso come verità e nella ricerca della verità come senso". Questo processo è alla base della trasformazione che permette al paziente di acquisire un'autocoscienza riflessiva che a sua volta permetterà ulteriori trasformazioni. Il compito analitico si realizza così attraverso un dialogo che rappresenta esso stesso "un esistere reciprocamente confermato nell'ordine simbolico del linguaggio". In questo dialogo le interpretazioni costituiscono un senso in quanto restituiscono al paziente la possibilità di scoprire e costruire nuovi significati. Quindi, l'idea di Loch, del tutto condivisibile, è che la psicoanalisi debba essere vista come un metodo (antropologico) "in grado di far scoprire un nuovo senso ed una nuova verità entrambi intesi come libertà di formare nuovi pensieri e nuovi significati''. E, a conferma della sua idea, Loch si richiama a Platone e alla sua "anima", intesa come "logisticón* o "facoltà di parlare". Per cui una comprensione profonda si potrà avere solo quando il "sentire", attraverso il linguaggio, verrà a coincidere con il "pensare".

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