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Dettagli

1992
1 gennaio 2005
Libro universitario
448 p.
9788826309071

Voce della critica


recensione di Mancia, M., L'Indice 1992, n.11

Dieci anni fa moriva a Londra Paula Heimann, all'età di ottantatrè anni. Nata a Danzica da genitori russi, medico e psichiatra a Berlino negli anni venti, fece il suo training analitico con Theodor Reik e nel 1932 si qualificò membro della Società Psicoanalitica di Berlino. Ma nel 1933, quando Hitler assunse il potere in Germania, la Heimann si trasferì a Londra, dove divenne membro didatta della Società Psicoanalitica Britannica.
Come racconta Pearl King nell'introduzione a questa raccolta di lavori, a Londra la Heimann iniziò un'analisi con Melanie Klein e ne divenne un'allieva che condivideva le sue teorie al punto da esserne considerata l'erede naturale. Ma questa collaborazione doveva interrompersi: troppo radicata era nella Heimann l'esperienza berlinese con un allievo di Freud e troppo indipendente il suo giudizio.
Il punto di maggior attrito con la teoria e la tecnica della Klein resta il concetto di identificazione proiettiva. Diffidente fin da quando questo concetto è presentato dalla Klein (1946), la Heimann finisce per considerare l'identificazione proiettiva e introiettiva come fantasie che si riferiscono solo a situazioni "intrapsichiche". Le sue originali idee sul controtransfert hanno poi permesso alla Heimann di suggerire per l'analista il ruolo di "Io supplementare" del paziente e di criticare quelle interpretazioni - classiche invece nel modello kleiniano - che riguardano parti scisse del sé del paziente, proiettate nell'analista.
Possiamo partire, nella lettura del volume, dalle argomentazioni che la Heimann prende da Freud a favore della pulsione di morte. Appaiono povere, spesso naif, schematiche e riduttive, e non sembrano trovare conferma nella clinica. Non rendono conto della complessità dei processi che determinano lo sviluppo della mente infantile, e degli affetti che dominano le relazioni primarie e le stesse relazioni tra oggetti interni. La stessa Heimann sembra accorgersene, ed esprime una certa ambivalenza rispetto al significato clinico della pulsione di morte, quando scrive: "La frustrazione viene cercata perché funziona come una leva per la deflessione dal sé dell'odio e della distruttività... In tal modo la frustrazione ha una sua precisa collocazione nello schema delle difese primitive".
Il presupposto dunque è che l'odio e la distruttività non sono innati; la frustrazione li rende evidenti. Ma l'esperienza analitica insegna che la frustrazione non è cercata dal bambino. E la realtà (e la madre è la prima significativa rappresentante di questa realtà) la fonte inevitabile di frustrazione, perché non potrà mai esaudire i desideri onnipotenti del bambino. Le difese del bambino saranno determinate sia della qualità e intensità della frustrazione sia dalla capacità e dall'equipaggiamento con cui far fronte alla realtà e allo scarto tra il desiderio e il suo esaudimento.
Le argomentazioni che la Heimann propone, non sempre con convinzione, a favore della pulsione di morte possono essere facilmente capovolte e usate per sostenere un modello interattivo e relazionale del bambino con l'ambiente e la realtà. Gli scritti successivi, che ritornano su questo spinoso argomento, sembrano indicare un suo atteggiamento critico nei confronti della pulsione di morte e un tentativo - anche se solo abbozzato - di abbandonare la teoria pulsionale (di cui si sentiva debitrice con Freud e la scuola di Berlino) per una teoria relazionale e interattiva della mente.
Il lavoro sull'introiezione del 1948 sembra dominato dalle teorizzazioni kleiniane sullo sviluppo della mente, sempre nell'ambito di una teoria pulsionale, in cui succhiare, mettere in bocca, incorporare presentano "una duplice origine, una di natura libidica e l'altra distruttiva". Grazie agli impulsi orali, il bambino potrà conoscere gli oggetti della realtà e farsene delle "copie", o rappresentazioni. "Ma queste copie - precisa la Heimann - non sono ritratti fedeli: sono gli oggetti esterni così come sono stati trasformati dai suoi impulsi e dalle sue fantasie".
La soddisfazione degli impulsi libidici del bambino crea oggetti interni "buoni", fonte di aiuto e piacere. L'insoddisfazione e la frustrazione dei desideri creano oggetti "cattivi", fonte di ostilità e di sofferenza. Poiché è impossibile soddisfare ogni desiderio libidico, ne consegue che "il lattante fluttua tra la fantasia onnipotente che appaga tutti i suoi desideri e la frustrazione impotente". Qual è il destino di questa frustrazione? E sufficiente mettere in moto nel bambino dei processi difensivi, caratterizzati da scissione degli oggetti "buoni" e "cattivi" e dall'identificazione proiettiva degli oggetti che creano angoscia? O è necessario - come vogliono la Klein e la stessa Heimann, in questa fase della sua produzione - pensare a una pulsione di morte innata, con tutti i suoi correlati in forma di fantasie e affetti, per spiegare i processi che partecipano all'organizzazione della mente infantile?
È questo il dilemma in cui si dibatte la psicoanalisi attuale, erede del pensiero di Freud e della Klein, ma tesa a sostituire il modello pulsionale con un modello interattivo, che tenga in maggior conto gli aspetti "relazionali" primari del bambino con l'ambiente, in primo luogo con la madre e con la coppia dei genitori.
Dalla relazione primaria con la madre, come oggetto parziale, a quella con entrambi i genitori come persone intere, "il lattante arriva anche a scoprire che c'è un rapporto fra i suoi genitori, raggiungendo in tal modo la costellazione triangolare del rapporto emozionale", entrando così "nel primo stadio del complesso edipico". È un momento di estrema complessità ontogenetica e - dice la Heimann - "ci vorrebbe un modello mobile multidimensionale per illustrare i processi emozionali del lattante". E anche il momento in cui confusioni geografiche tra seno/pene, bocca/vagina, urina/latte e così via dominano le fantasie inconsce del bambino, al centro delle quali c'è il rapporto sessuale dei genitori, fonte di esclusione, gelosia e frustrazione ma anche di un sentimento di angoscia per le attività dei genitori interni, sentite come distruttive dentro il suo stesso corpo. Tali complessi e contrastanti sentimenti generano l'ambivalenza del bambino verso i suoi genitori e presiedono alla formazione del Super-Io, precipitato dei più precoci oggetti introiettati e prodotto finale di questo graduale sviluppo.
Collegate a questo processo sono le "fantasie inconsce" che la Heimann riprende in un famoso lavoro del 1952 sugli stadi precoci del complesso edipico. Tali fantasie vengono definite "formazioni psichiche più primitive, inerenti all'attività degli impulsi istintuali... la matrice dalla quale si sviluppano i processi preconsci e inconsci... [esse] sono preverbali o piuttosto non-verbali... associate all'esperienza del lattante di piacere o di dolore, di felicità o di angoscia, e coinvolgono il suo rapporto con gli oggetti". Siamo in una fase di aderenza alle teorie kleiniane dello sviluppo, centrate sull'angoscia attivata dalla frustrazione e dal conflitto, e sulle paure primitive per la presenza interna di oggetti persecutori (in primo luogo il seno cattivo), che il bambino deve scindere e proiettare fuori di sé.
È a questo punto che il complesso edipico precoce fa la sua comparsa, collegato alla fantasia di una "figura genitoriale combinata": i genitori uniti in un rapporto sessuale, che producono nel bambino gelosia e fantasie distruttive, seguite da angoscia e paure. Ma i genitori sono anche gli oggetti che il bambino internalizza per tutto il corso della sua crescita, per cui "lo sviluppo del complesso edipico è influenzato in ogni momento dai suoi sentimenti verso i genitori interni, dal timore di essere perseguitato da loro e dal senso di colpa per averli danneggiati". Tutto ciò rappresenta l'inizio di un processo che avrà come stadio finale il complesso edipico classico, scoperto da Freud.
Paula Heimann negli anni successivi torna sul problema dello sviluppo primario, in particolare sulla relazione tra il "lattante psicoanalitico" e il "lattante originario", arrivando alla conclusione - condivisa da molti autori anche oggi - che il primo non è identico al secondo; vale a dire che non c'è isomorfismo tra l'infante nella sua relazione primaria e la parte infantile del paziente nella sua relazione analitica.
Sugli aspetti transferali e controtransferali della relazione analitica, il contributo della Heimann si può considerare importante e innovativo. Il concetto di transfert è inteso in senso kleinianamente estensivo, come un momento relazionale in cui "il paziente tratta le proprie idee, le memorie degli avvenimenti del passato, i propri desideri e timori... come entità personificate localizzate dentro di sé, e trasferisce questi oggetti interni anche nell'analista". La Heimann precisa che "il paziente ripete (o conserva) la modalità di reazione di tipo infantile alle sensazioni corporee ed ai processi intrapsichici". A questi ultimi è particolarmente interessata: nella posizione schizo-paranoide e nelle sindromi paranoidi dell'adulto, l'introiezione permette di organizzare un oggetto interno che l'Io tratta con lo stesso sadismo con cui tratta l'oggetto originario del mondo esterno. Ne risulta, all'interno dell'Io, una scissione: "la parte dell'Io che si viene ad identificare con l'oggetto introiettato viene scissa dal resto. In tal modo si organizza un 'nuovo scenario' all'interno dell'Io, in cui l'Io perpetua i propri rapporti affettivi sadici".
È il concetto di "identificazione proiettiva intrapsichica", in cui si mescolano introiezione, scissione e proiezione intrapsichica, e che opera come difesa dalle paure persecutorie caratteristiche degli stati paranoidi. "Il paziente paranoico è in pericolo soltanto nella misura in cui si identifica con l'oggetto interno che egli perseguita". Così si conclude un lavoro, del 1952, in cui, come è evidente, il concetto di identificazione proiettiva così caro alla Klein viene arricchito ma ad un tempo stravolto: l'oggetto esterno non è più il contenitore delle parti del Sé proiettate ma è l'Io stesso scisso a fare da contenitore. Un ridimensionamento del concetto di identificazione proiettiva che la Klein non poteva certo accettare.
Ma il distacco della Heimann dalla Klein era già avvenuto alcuni anni prima: nel 1950 la Heimann pubblica un breve lavoro, poi diventato famoso, sul controtransfert, che definisce "la risposta emozionale dell'analista al suo paziente... un indice importante dei processi inconsci del paziente [che] guida l'analista verso una comprensione più completa... una creazione del paziente". E un capovolgimento delle precedenti cognizioni sul controtransfert, da Freud alla Klein. Diventa la bussola con cui orientarsi nell'inconscio del paziente, uno dei più importanti strumenti di lavoro dell'analista, necessario per riconoscere soprattutto le comunicazioni non verbali del paziente e poter formulare interpretazioni adeguate.
Esiste il pericolo che analisti poco attenti al proprio mondo interno- e ai propri conflitti - possano imputare al paziente ciò che in realtà appartiene solo a loro. Questo pericolo potrà però essere scongiurato - secondo la Heimann - "se l'analista ha elaborato nella sua analisi personale i propri conflitti infantili e le proprie angosce (paranoiche e depressive), in modo da poter entrare facilmente in contatto con il proprio inconscio". Un buon assetto interno è dunque indispensabile per poter vivere i propri sentimenti controtransferali e usarli come chiave di accesso all'inconscio del paziente. Ciò comporta, da parte dell'analista, un'"attenzione fluttuante", specifica e diretta, sia al mondo del paziente sia al proprio, un"'autoanalisi interminabile", quale unica garanzia che gli permette di non confondersi con il paziente e di raggiungere la distanza ottimale che gli garantisca un'adeguata interpretazione.
A quest'ultimo argomento, la Heimann dedica un illuminante lavoro, nel 1970. Qui vengono affrontate le molteplici funzioni dell'interpretazione: stabilire un contatto con il paziente; renderlo; consapevole delle diverse modalità del suo porsi con l'analista; stabilire collegamenti tra le diverse esperienze del paziente e favorirne l'integrazione, stimolare e facilitare i processi di pensiero sia nel paziente sia nell'analista. "L'interpretazione funziona anche come strumento di pensiero - scrive la Heimann -, l'interpretazione produce nuovi pensieri".
I lavori degli ultimi anni vedono la Heimann impegnata in questioni di tecnica e di teoria, tese a integrare l'insegnamento più ortodosso ricevuto a Berlino con l'esperienza kleiniana fatta a Londra. È nuova e interessante la sua posizione di analista che ricerca con il paziente, in un incessante lavoro di coppia dove l'analista deve uscire dalla posizione di neutralità - un tempo fortemente raccomandata - ed entrare nell'arena, o meglio nel campo relazionale (Willy e Maddalena Baranger, "La situazione psicoanalitica come campo bipersonale" Cortina, 1990). Prende da Matte Blanco ("L'inconscio come insiemi infiniti", 1975; trad. it. Einaudi, 1981), una divertente metafora matematica per dimostrare la nullità del lavoro dell'analista neutrale: addizionando lo O (elemento equivalente all'analista neutrale) a qualsiasi numero (equivalente al paziente), questo valore resta immutato. Dunque il paziente ha bisogno di sentire che "il suo analista si sintonizza con lui"; soprattutto l'analista deve essere molto accorto a non "scegliere la parola come veicolo esclusivo di comunicazione e di significato" e a non trascurare tutti gli altri eventi, vissuti, affetti che il paziente, senza la parola, può far sentire all'analista direttamente, attraverso la sua pelle controtransferale.
Emergono dalle pagine appassionate del libro riflessioni profonde e preziose con le quali si può anche non essere d'accordo, ma che rappresentano per ogni analista onesto e disposto a condividere la sofferenza del paziente un testamento dei più toccanti e dei più vitali.

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