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Anno edizione: 2011
Anno edizione: 2010
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Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
Un viaggio on the road all'italiana, rocambolesco, avventuroso, a tratti rischioso, che costringe i protagonisti a fare i conti con ansie, paure, incompletezze, a prendere decisioni che hanno a lungo rimandato, a mettersi in gioco, ma soprattutto ad essere coraggiosi, sia nell'immediato sia nelle scelte che determineranno il loro futuro. Intimo e corale allo stesso tempo, è originale anche il modo in cui è narrato, che vede alternarsi la voce dei tre protagonisti.
Ingredienti: un viaggio sentimentale da Torino a Bari, tre personaggi in cerca di se stessi e in fuga da problemi irrisolti, una rotta dettata da incontri ed imprevisti, un punto di arrivo che riporta all'infanzia e al cuore della vita. Consigliato: a viaggiatori di malinconie che inseguono ricordi in ogni luogo, a cacciatori di emozioni braccati dalle sofferenze del passato.
Gran bel romanzo, che gode di una scrittura meticolosa e musicale, di rara raffinatezza. La scelta di costruirlo con tre voci narranti incrociate, complementari e dissonanti, non dà mai luogo a incertezze narrative e l'autore si rivela capace di gestire le singolarità dei tre personaggi in modo inappuntabile. I dialoghi sono incisivi, divertenti, ma sanno lasciare il passo ad attimi di sospensione, tra paesaggi innevati, curve, saline (e salite) e castelli impossibili. Bella perciò l'atmosfera generale del libro, che sembra un unico respiro. Ho apprezzato in particolare il personaggio di Vittorio, soprattutto il grande affetto con cui è tratteggiato e raccontato. Questa eterna paura che lo avvolge e lo pervade è una cosa che ti fa venir voglia di prendergli la mano e stringerla, per rassicurarlo; di chiudere le finestre per difenderlo o, al contrario, aprirle per fargli trovare il coraggio e la forza per uscire dalla sua stessa prigione. Questa è la cosa che mi ha colpito e coinvolto di più. Questo malessere che tutto mette in bilico, contro il quale non c'è difesa, perché è come essere senza pelle, esposti sempre a qualcosa che non si è scelto né desiderato.
Recensioni
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Ciò che tutti i veri viaggiatori felicemente condividono è, in sostanza, un'ingente ipoteca sulla loro stessa identità. È questo lo stesso peso che trattiene i sedentari puri, da Petrarca fino a Vittorio, viaggiatore malgré soi lungo questo sfrenato road trip fra Torino e Bari, ma teorico della permanenza: "Una volta Don Geppe mi ha detto che siamo come fiori, Dio ci ha piantati in un posto e lì dobbiamo stare. Io, appena mi spostano, sto male". In effetti, chi si sposta, chi viaggia, chi ha a che fare con l'impermanenza, come scrive Magris citato da Remmert in epigrafe, inevitabilmente cede al "mero caso" e continuamente "tralascia" qualcosa. Chi si muove e si dà al mondo, si espone al fuori senza saperne nulla: e anche se non giunge a farla cadere del tutto nell'oblio, come i tanti viaggiatori settecenteschi che nel loro "viaggio in Italia" osservano e descrivono per centinaia di pagine solo le cose che incontrano al di fuori di sé, in qualche modo sospende le certezze della sua identità, ne vela i gorghi e gli abissi, ne placa i fantasmi.
Si potrebbe dire che lo sgangherato viaggio in Italia intrapreso d'inverno da Francesca, Vittorio e Manu a bordo della gloriosa "Baronessa" (chi non ha mai battezzato una vecchia auto?) contraddice dall'inizio alla fine questo principio di marginalità dell'io. La forza del libro consiste, al contrario, in una sorta di sapiente anatomia intima dei personaggi e nella resa psicologica che a essa segue, lungo le strade di un bel paese la cui bellezza solo a tratti lampeggia nelle pagine (e alla fine le strade diventano "bianche", svaniscono del tutto, assieme ai luoghi) e verso un Sud che coincide piuttosto con il fondale di tre diverse anime. Il vecchio incontrato dai tre in un'osteria a Rimini semplicemente ridice questo principio, citando il Petrarca del Monte Ventoso e quindi Agostino: "Le persone viaggiano per stupirsi delle montagne, dei mari e delle stelle
ma poi passano accanto a se stesse senza meravigliarsi".
Solo alla fine, definendo la natura del suo "spostarsi" (una ricerca? una fuga?), l'inquieto Vittorio, un "ricevitore radio di onde di dolore", chiarirà tutto: ora scandito da ricordi profondi, traumi irrisolti e ragguagli sulla propria e altrui anima, ora solcato da tensioni emotive emergenti fra i tre, il viaggio che finisce è stato, fin dall'inizio, un "viaggio sentimentale". E il libro stesso, in cui non a caso la narrazione procede per angolazioni soggettive che si inseguono, ne diventa una sorta di vivace, ininterrotto diario collettivo.
D'altra parte, Remmert non rinuncia mai alla dimensione picaresca latente in ogni vera impermanenza. Alla stretta indagine dell'intérieur, che per eccesso irrigidirebbe il viaggio stesso in monotono e arbitrario pretesto, si alternano piccole vittorie del fuori, digressioni avventurose e rallentamenti imprevisti, il divertimento etimologicamente inteso (un'uscita al di fuori dalla strada segnata), ma anche il capriccio e lo spasso. A tratti, e contraddicendo quel "certo tipo di saggezza" che esso stesso contiene, il viaggio lascia per strada ogni logica funzionale e letteralmente manda per aria i confini del surreale e dell'assurdo: in una bottega di Giulianova un "macellaio elegante come uno chef" inizia una conversazione con "a me piacciono le tette", a Manfredonia un confronto serrato sulla natura di Dio dovrà essere scandito dalla parola "frizione", e così via. Ma, in fondo, e lo ribadiva con forza Sterne inventando in Yorick una nuova categoria di traveller, ogni buon "viaggiatore sentimentale" non può che accogliere con un certo favore tutti i capricci, le minuzie e le piccole follie che la strada gli offre. I viaggiatori di Strade bianche non fanno altro: più moderni e più malinconici di Yorick, vanno per il mondo spostando lo sguardo dalla strada all'interno del proprio petto, e viceversa.
Daniele Santero
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