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Anno edizione: 2011
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Libro molto coinvolgente e ben scritto. la sequenza in cui Nina scappa è talmente realistica che sembra di essere lì con lei, con le belve alle calcagna...Lo consiglio. Tra l'altro fa anche riflettere molto sul nostro modo di vivere.
Mi aspettavo di più, è l'ennesima storia post-catastrofica con finale incerto.Mi è piaciuto comunque il rapporto tra la protagonista e la natura selvaggia che la circonda, il resto, tutta roba già letta.
Un pò Oltre il confine, un pò La strada, un pò Il Buio Fuori. Peccato che replicare o copiare Mc Carthy sia a ingente rischio di sottomissione letteraria
Recensioni
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Nina dei lupi di Alessandro Bertante è un romanzo-monolite. Un blocco unico. Difficilmente articolabile. Contenitore ermetico, inattaccabile da ogni pretesa di separazione o frammentazione tra linguaggio e immagine, tra tema e forma. Da questa sua compattezza, dalla perfetta tenuta stagna del suo corpo testuale, del resto, sembra trarre tutta la sua forza. Che venga definito come epico - inserito in un mainstream apocalittico alla McCarthy, alla Houellebecq - o come opera dalla chiara valenza metaforica, che si parli bene o male del suo linguaggio, delle sue asperità, delle sue zoppie, è immediatamente evidente che Nina dei lupi possiede un'efficacia narrativa non comune. È un testo che non lascia indifferenti. Ma da dove viene l'icasticità del suo segno? Che cosa "non lascia indifferenti" in Nina? Con tutta probabilità la scelta stessa dei temi. La "storia", in sintesi. Ma non solo. Nina dei lupi non è soltanto il racconto di una guerra tra un mondo post-atomico violento e contaminato e un paese di montagna, Piedimulo, che a questa stessa violenza ha cercato di sottrarsi vivendo in un perfetto isolamento. Nel romanzo non c'è solo lo scontro, terribile, a inizio del testo, tra la banda di razziatori che irrompe nel paese e i montanari, così come non c'è solo la fuga di Nina, bambina poco più che dodicenne, verso la montagna e da lì, la sua lenta e progressiva iniziazione alla vita. Fin qui, nulla di più che un'intuizione felice e un intreccio certamente ben strutturato. Il nodo della questione, la forza del testo, sembra però stare da tutt'altra parte. O meglio, sembra trovarsi esattamente all'incrocio tra la narrazione e il suo taglio, tra la storia e il suo linguaggio, tra il "cosa" e il "come". In Nina non esistono compromessi. I buoni qui sono integralmente buoni. I cattivi, un'accolita di depravati senza possibilità di redenzione. Da una parte Nina, la bambina-donna senza paura, Alessio il cacciatore, Diana sacerdotessa del culto ancestrale dei boschi. Dall'altra Gianpaolo, Fosco, Tano, gli uomini venuti "dal mondo di fuori", stupratori e assassini, malati di una demenza nera e senza scampo. Non esistono zone intermedie tra uno stato o l'altro dell'anima così come solo la riga sottile di un fiumiciattolo divide i due mondi del libro. Il bosco di Nina, in alto. Il villaggio preso dai razziatori, in basso. Si procede per opposizioni. I malati e i sani. Gli uomini e i lupi. Il silenzio della valle e l'urlo del mondo dall'altra parte della galleria. Nessuna "complessità" nelle scene del romanzo. Nessuna profondità psicologica nei personaggi, perché Nina dei lupi è - è stato scritto, concepito e pensato, anche se questo noi lo sapremo soltanto alla fine - come una narrazione mitica e il mito non conosce profondità e spessore, ma solo l'icasticità ieratica del proprio segno. La storia di Nina, e della sua vittoria sul mondo malato degli uomini, non rappresenta infatti il racconto del tutto umano di uno scontro e di una fine, ma la leggenda atemporale di una fondazione. La fondazione di un tempo nuovo, di una nuova umanità con nuovi figli e nuove leggi. Nina, fin dall'inizio del testo, è "quello che c'è stato prima". La sua montagna appartiene all'età remota dei demoni e degli dei. All'età in cui la natura stessa era demone e dio insieme. Demone nelle macchie rossastre, nelle striature di sangue che per tutto il libro continuano ad apparire in cielo, riflesso (o forse causa stessa) dell'agonia del mondo. Dio pagano nella maestosità degli inverni, nel silenzio dei ghiacci, nei lupi. Di fronte a un universo così, allora, di fronte al mondo "come è stato prima", il linguaggio del racconto non può che essere forzatamente "povero", ridotto all'osso di una narrazione al limite del proprio valore espressivo. I personaggi si fanno bidimensionali come pure figure iconologiche. Il loro sguardo, indistinguibile dallo sguardo muto dell'animale o della divinità. Del resto, da Derborence di Charles-Ferdinand Ramuz alle leggende atroci presenti nelle Fiabe italiane di Calvino, la montagna è da sempre un luogo liminare, l'immagine di un sincretismo panico "incarnato", di una sacralità diventata roccia e terra. Bertante però qui radicalizza il discorso creando, all'interno del suo personale universo apocalittico, un vero e proprio codice rappresentativo a se stante, inventandosi una lingua "sporca", grezza, come appena sbozzata da un nucleo materico estremamente difficile da controllarsi. Una lingua radicale, irredimibile nella violenza informe della propria pulsionalità. La lingua, appunto, non-articolabile, non-frammentabile del mito. "Passarono altri inverni, fiorirono altre primavere. A decine e poi ancora. Le leggende si unirono nel mito. In tutte le vallate si raccontava la storia della bambina che divenne donna, crescendo sola tra le bestie selvagge. Si favoleggiava del suo arco infallibile, della sua castagna magica. Della sua strabiliante bellezza. Durate le lunghe notti di inverno trascorse davanti al fuoco i bambini delle montagne occidentali volevano ascoltare solo una storia. Chiedevano di raccontare di Nina. Nina dei lupi". Isabella Mattazzi
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