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Storia dell'Italia repubblicana. L'economia, la politica, la cultura, la società dal dopoguerra agli anni '90 - Silvio Lanaro - copertina
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Storia dell'Italia repubblicana. L'economia, la politica, la cultura, la società dal dopoguerra agli anni '90 - Silvio Lanaro - copertina

Descrizione


L'economia, la politica, la cultura, il costume dal dopoguerra agli anni '90 nel volume che ha vinto il "Premio Acqui Storia 1993" e il "Premio della Società italiana per lo studio della storia contemporanea 1993".
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Dettagli

2
1997
Tascabile
18 aprile 1996
624 p.
9788831763967

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michele
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Valido, completo, ben scritto, a volte forse troppo "tecnico", ma decisamente un ottimo libro sulla storia d'italia.

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Voce della critica


recensione di Gallerano, N., L'Indice 1992, n.10
(recensione pubblicata per l'edizione del 1992)

Fino a qualche anno fa gli storici italiani sembravano restii a proporre sguardi d'insieme e visioni di sintesi del recente passato nazionale. L'ultimo, cospicuo tentativo in questa direzione risale agli anni settanta, con la "Storia d'Italia" a più mani pubblicala da Einaudi; ma non è certo un caso che a quella impresa abbia fatto seguito, presso lo stesso editore, una serie di storie regionali; come non è un caso se la produzione scientifica sulla storia contemporanea italiana si sia indirizzata in questi ultimi anni in prevalenza alla ricerca locale o sezionale. La sintesi sembrava riservata alla penna meno impegnativa di grandi e meno grandi giornalisti o a studiosi stranieri: per restare all'Italia repubblicana, è stato l'inglese Paul Ginsborg nel 1989 a offrire la prima, vera ricostruzione d'assieme. Ora invece sembra profilarsi un'inversione di tendenza, di cui il saggio di Lanaro costituisce un esempio brillante, che segue la "Repubblica dei partiti" di Pietro Scoppola ( 1991) e anticipa altre imprese di sintesi annunciate o in cantiere.
Se è facile - è una semplice constatazione - segnalare queste novità, non altrettanto lo è cercare di capire le ragioni che ne sono all'origine: meglio, di valutare il peso che, nel determinarle, hanno giocato ragioni esterne o interne alla logica disciplinare. Io credo comunque che occorra guardare in questa duplice direzione: da un lato, la "fine del dopoguerra", sancita nel 1989 dal crollo del comunismo e dai suoi effetti anche sul terreno italiano, spinge a una riflessione globale, a un bilancio del cinquantennio repubblicano da questo nuovo punto di vista; dall'altro, si registra non una crisi degli approcci parziali o locali (lo stesso Lanaro ha curato il volume einaudiano sul Veneto; e non esiste contraddizione tra quella e l'attuale impresa) ma la smentita che solo attraverso di essi sia possibile smontare consolidati luoghi comuni e procedere all'innovazione storiografica.
Certo, le sintesi comportano dei rischi, tanto più quando si misurano sulla storia nazionale; l'air du temps che ne vede la gestazione può essere particolarmente fuorviante e renderle rapidamente obsolete. Rileggere oggi, ad esempio, la "Storia d'Italia" einaudiana, con il suo impianto così visibilmente orientato ad accompagnare un esito della storia nazionale che si riteneva prossimo a un compimento positivo, con il successo dei partiti di massa e un generale spostamento a sinistra, lascia veramente sconcertati; e non sorprende che Lanaro non abbia sentito la necessità di citare la "Storia politica e sociale" di Ragionieri neppure una volta.
Ma sono rischi che vale la pena di correre, se non altro per il contributo che opere di questa natura offrono al dibattito politico oltre che alla riflessione storica. Dichiaro subito che il tentativo di Lanaro a me pare nella sostanza riuscito. E non solo perché taglio interpretativo e giudizi di valore, per quanto espliciti e dichiarati, non prevaricano sull'analisi del materiale documentario (questo valeva anche per il volume di Ragionieri), ma perché, a differenza che negli anni settanta, il punto di partenza è ora molto più solido: l'evidenza della chiusura di una lunga fase storica e della profondità della crisi attuale. Quattro anni fa lo stesso Lanaro aveva, con il suo "L'Italia nuova" offerto un pamphlet appassionato e sarcastico sulla storia postunitaria, dal quale emergevano i contorni rigidi di un "eccezionalismo" italiano, declinato, leopardianamente, come un difetto di "costume": assenza di valori minimamente condivisi, senso civico ridotto meno che a zero. I suoi effetti: una modernizzazione economica senza progresso civile.
Lanaro non ha cambiato idea ma ha in questo caso tenuto più chiaramente distinta la chiave analitica dal giudizio di valore: in altre parole ha corredato la sua diagnosi di ricche e articolate spiegazioni del perché le cose sono andate in un certo modo.
La prima parte del volume, che si arresta alle soglie della "grande trasformazione", alla metà degli anni cinquanta, e copre circa la metà dell'opera, è senza dubbio la più riuscita. Insolitamente, l'analisi si apre con un bilancio a tinte scure dell'Italia che esce dalla guerra: e non per le ragioni più ovvie - le difficoltà economiche, che Lanaro sottolinea, al contrario, come fossero meno drammatiche di quanto non risulti dal dibattito pubblico dell'epoca - ma per la perdita di "beni immateriali" che il corpo della nazione aveva subito a seguito della sconfitta bellica. Niente trionfalismi, insomma, sull'Italia vittoriosa della Resistenza; e invece un'attenzione alle forme anche minori e sotterranee della crisi dell'identità nazionale.
Lanaro inoltre sfugge alla rigidità delle alternative secche che il dibattito politico e anche qualche ricostruzione storica hanno proposto in anni recenti con troppo facile senno del poi: il giudizio sul centrismo e sull'atlantismo è severo quanto e forse più di quello sull'opposizione comunista. Non esita a parlare di "un disegno di restaurazione" con riferimento alla proposta politica di De Gasperi e sottolinea le modalità anguste, selettive, a puri fini interni, dell'atlantismo e dell'americanismo dei partiti al governo. Del Pci togliattiano riconosce e apprezza la scelta di attestarsi sul terreno democratico ma sottolinea pure i vizi della concezione e del ruolo del partito, fine più che mezzo dell'azione politica; e spiega il suo successo presso intellettuali di sicura fede liberaldemocratica con il riconoscimento del fatto che "nonostante tutti i suoi difetti il Pci [era] l'unico argine che frena[va] il dilagare dell'Italia delle parrocchie, dei Comitati civici, degli abusi amministrativi e del restringimento degli spazi di libertà" (p. 72).
Pagine assai felici, che riprendono analisi già svolte dall'autore negli anni settanta, sono dedicate proprio al mondo cattolico, a Pio XII e a Luigi Gedda: dei quali coglie con acume la purissima modernità reazionaria e insieme l'ansia e la fretta di innalzare strenui baluardi contro un'incombente e ineluttabile secolarizzazione. Ma chi esemplifica al meglio, agli occhi di Lanaro, il deficit di cittadinanza che la società italiana ostenta nel primo decennio postbellico, sono "gli italiani più italiani di tutti": gli "apoti", secondo l'autodefinizione di Prezzolini, coloro che non la bevono, opportunisti insieme cinici e ingenui che interpretano e titillano le ansie il desiderio di tranquillità, la rinuncia a ogni impulso di solidarietà collettiva e civile di un ceto medio gelatinoso e querulo, cresciuto senza vera convinzione sotto le ali protettive del fascismo e ora disposto ad accodarsi passivamente ai nuovi assetti politici.
I tre protagonisti di un simile diffuso qualunquismo esistenziale, Guareschi, Giannini, Longanesi, contano per Lanaro più che per i loro demeriti intrinseci per il fatto che l'apotismo informa di sé la grande stampa indipendente e diventa così "un capitolo centrale della storia dell'opinione pubblica nel dopoguerra" (p. 124). Si comprende allora, per chiudere la panoramica sull"'universo della politica", come per i sostenitori di una collocazione occidentale dell'Italia non servile e autonoma e i critici liberal del "regime" democristiano gli spazi siano chiusi: e alla "meteora" del partito d'azione e alla diaspora dei suoi esponenti non restino che i vantaggi di uno "sguardo telescopico", senza alcuna possibilità di incidere sugli equilibri di potere esistenti.
Questo stringato riassunto non rende giustizia alla complessità della trama intessuta da Lanaro, alla sua attitudine a percorrere strade poco battute dalla contemporaneistica italiana e soprattutto a utilizzare e integrare in un disegno unitario una materia multipla e all'apparenza reciprocamente irriducibile: politica e ideologia, cultura ed economia, messaggi dei media e cronaca nera, letteratura e religiosità sono tutti percorsi che l'autore non si nega e restituisce al lettore in una scrittura ricca e godibile, dall'aggettivazione incisiva e sferzante.
Queste doti non fanno difetto nelle pagine successive, anche se la ricostruzione dell'autore non è qui sempre persuasiva. Opportunamente l'impianto della prima parte è rovesciato: la politica segue e non coordina la "grande trasformazione". L'accesso alla "modernità" di una società irreggimentata dal pedagogismo arcaico e autoritariamente virtuoso del primo decennio è descritto come un'esplosione incontrollata, che fa saltare la "compressione dello stile di vita" incautamente ma inevitabilmente imposta con tecniche moderne. L'accento cade dunque sui costi della modernità: altissimi per l'Italia perché, a differenza che altrove, "l'effettiva unificazione sociale e demografica del paese" si compie grazie all'espansione dei consumi individuali. È il consumo, sostiene Lanaro, che consente agli italiani tutti di "accettarsi reciprocamente con una naturalezza che chiesa, lingua, partiti, istituzioni pubbliche e servizio militare non erano mai riusciti ad assicurare" (p. 259). Di qui gli effetti negativi, denunciati con un tono che, a dispetto della lucidità dell'analisi, si fa spesso deprecatorio. L'elenco è lungo e non risparmia pressoché niente e nessuno: scristianizzazione passiva, corrompimento della lingua, "impoverimento dell'universo simbolico collettivo", cinema, calcio, musica d'evasione; e, venendo ai grandi aggregati sociali ed economici, ceto medio "artificiale", economia sovvenzionata, intreccio di affari e politica, corporativismo operaio e sindacale: assecondato, quest'ultimo, e vellicato dalla cultura di sinistra, da un "italomarxismo" che resta paradossalmente antindustrialista.
Torna dunque, come criterio di lettura del caso italiano, la diagnosi sul deficit di cittadinanza, sul civismo inesistente, cui d'altronde il sistema politico contribuisce la sua parte, rinunciando a perseguire una nazionalizzazione democratica, degli italiani e concedendo spazi a mene eversive all'interno stesso delle istituzioni. Queste, più che le non riforme, sono per Lanaro le occasioni mancate del centro-sinistra; Cosi come il fallimento della "solidarietà nazionale" negli anni settanta verrà riferito all'assenza del requisito primo di quella politica: l'inesistenza appunto di una "nazione".
Questa seconda parte suscita-lo accennavo prima-alcune riserve. E non tanto perché inevitabilmente sommaria è la trattazione degli anni settanta e ottanta, anche se non mancano pagine - in particolare quelle dedicate al delitto Moro - di grande acutezza ed efficacia. Ma perché la diagnosi sul deficit di cittadinanza risulta troppo pervasiva e per certi aspetti involontariamente tautologica. Cosi ad esempio gli anni sessanta sono univocamente etichettati come il trionfo dell'individualismo e del corporativismo generalizzati, senza freni e senza misura: e richiederebbero viceversa di essere letti prestando maggiore attenzione alla dialettica tra "solidarietà" e "corporativismo", alla natura del conflitto per nulla "improduttivo" che ne contrassegna le vicende sociali e culturali.
Da allora comunque le sorti del paese-sembra legittimo sintetizzare così il pensiero dell'autore-andranno di male in peggio, nonostante la crescita economica. Sono gli effetti dell'air du temps, che non inducono certo a valutazioni ottimistiche e spiegano l'auspicio con il quale Lanaro conclude la sua fatica: che la vita pubblica italiana (e gli italiani con essa) diventino finalmente "normali".
Ma non è mia intenzione chiudere questa recensione con una nota negativa. Lanaro ha scritto un'opera di grande respiro intellettuale e di grande sapienza narrativa; e ha dato dignità storica al problema dell'identità nazionale dell'Italia repubblicana per la prima volta affrontato con tanta ricchezza analitica e acutezza interpretativa.

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