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Lavoro, mercato, credito, rendita, profitto, capitale. Queste sono le categorie che più spesso sono state utilizzate per afferrare i caratteri dello sviluppo economico moderno. Vi è però un soggetto - l'imprenditore - che non è una "categoria" ma ha a che fare con la spinta propulsiva dello sviluppo. Un soggetto che si presenta storicamente come lo slancio vitale e l'energia creatrice di ogni innovazione, e che, tuttavia, in ragione proprio della sua insormontabile e sempre difforme soggettività, sfugge alle concettualizzazioni predisposte al fine di descrivere il funzionamento del meccanismo della produzione e della circolazione delle merci. Il fatto è che l'imprenditore è un attore per molti versi extraeconomico. La teoria economica, del resto, fa fatica ad accoglierlo nelle proprie strategie esplicative. Pare necessario chiedere udienza alla sociologia e alla storiografia. Questo è l'assunto del bel libro di Berta, che ha il gran merito di tracciare una sintetica, utilissima, e certo sorprendente, rassegna delle interpretazioni della figura dell'imprenditore.
É Richard Cantillon (1680-1734), businessman irlandese attivo in Francia, il primo a comprendere che l'organizzatore della produzione non è chi detiene la mera proprietà, ma l'imprenditore. La britannica economia politica classica - con Smith e Ricardo - tiene però in gran conto soprattutto un'adeguata disponibilità di capitale. E il capitale, inglobando il lavoro e generando profitti, diventa l'impersonale e formidabile fattore in grado di moltiplicare la ricchezza delle nazioni. Marx prende i classici sul serio e per lui il capitalista operante - l'imprenditore - è in realtà un mero funzionario del capitale. Non è comunque, salvo eccezioni, nel mondo anglosassone ottocentesco, ma nel mondo tedesco e austriaco d'inizio Novecento, che compaiono le teorie, significativamente sociologiche, anche se formulate da economisti e storici dell'economia, volte a dare un peso decisivo all'imprenditore. Già nel Capitalismo moderno (1902) di Sombart si fa allora strada la leadership carismatica dell'imprenditore - un misto di vocazione e di destino -, così come l'autonomizzarsi della funzione imprenditoriale dalla proprietà. Ma è con Schumpeter che l'imprenditore, estraneo ala razionalità utilitaristica, diviene lo Zarathustra individualistico dell'innovazione permanente, il creatore di nuovi bisogni e mercati, l'anarca artefice dell'imporsi dell'offerta sulla domanda. L'imprenditore si muove infatti per salire nella scala sociale e per ansia di vittoria. Non per arricchirsi. E trasforma incessantemente il mondo. Già alla fine degli anni venti, e ancor più in seguito, Schumpeter registra però il declino irreversibile dell'imprenditore. Muore Thomas Buddenbrook e si estingue la sua dinastia. Vincono manager, burocrati e amministratori. Evapora la proprietà, gli individui precipitano nelle masse, il calcolo razionale ha la meglio sull'istinto guerriero e sulla decisione del capitano d'industria. Il controllo si afferma sull'iniziativa individuale. E con il controllo la tecnica.
Il Poscritto di Berta non allontana il sospetto che il capitalismo, almeno nei suoi quartieri alti, abbia dovuto rinunciare, per ingigantirsi, ai suoi ardimentosi corsari e ai suoi avventurosi condottieri. Senza peraltro imbrigliare compiutamente il suo nemico più pericoloso. Se stesso.
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