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Dettagli

1988
14 aprile 1988
153 p.
9788833904337

Voce della critica

OLIVO, ALBERTO, Ira fatale. Autobiografia di un uxoricida, Bollati Boringhieri, 1988

GUARNIERI, PATRIZIA, L'ammazza bambini. Legge e scienza in un processo toscano di fine ottocento, Einaudi, 1988
recensione di Villa, R., L'Indice 1989, n. 2

Incisa Valdarno, estate del 1875.Carlo Grandi, ventiquattro anni carradore, viene scoperto mentre sta per assassinare un bambino; preso, conferma l'assassinio di altri quattro, i cui resti sono stati trovati nella sua bottega. Il processo è celebrato alla fine del 1876, e "Carlino" - giudicato popolarmente un "grullo" - viene condannato alla casa di forza per vent'anni: i periti psichiatri della difesa, che avevano sostenuto l'"imbecillità" del soggetto, e quindi la sua non imputabilità, riprendono sulle loro riviste la discussione del caso. Uscito dal carcere, Carlo Grandi viene dopo poco internato in manicomio, in quanto pericoloso.
Milano, maggio del 1903. Alberto Olivo, impiegato alla Ginori e Richard, uccide nel sonno la moglie e, nei giorni successivi, seziona accuratamente il cadavere, ne fa scomparire una parte e, del rimanente, fa un pacco che porta a Genova, buttandolo poi in mare. Denunciato e arrestato, viene processato l'anno successivo, e rimesso in libertà. La giuria infatti riconosce l'assassinio, nega l'infermità di mente, ma nega anche che Olivo avesse avuto l'intenzione di uccidere: poiché affetto da frequenti insulti epilettici, di cui aveva anche dato eclatante testimonianza durante il dibattimento. E poiché il presidente non aveva predisposto un quesito riferito al ferimento, la morte si configura come accidente non voluto, senza ulteriori conseguenze. Ricorso in Cassazione e annullamento. Ma l'anno successivo, in Assise a Bergamo, i giurati rifiutano di emettere un giudizio per protesta: schede bianche, dunque assoluzione. Definitiva.
Due casi, due affari criminali che ebbero vasta eco, e che lasciarono tracce numerose, non soltanto negli archivi. Due casi conosciuti ed esemplari nella pubblicistica psichiatrico-legale, criminologica, anche forense. Due casi che ci vengono oggi riproposti contemporaneamente - ma è mero accidente - attraverso una chiave di lettura identica: quella della letterarietà: dunque e subito, dell'ambiguità. In effetti il caso Grandi e il caso Olivo, come tanti altri presenti nelle cronache giudiziarie, non possono essere oggetto di "riscoperta", e neppure avrebbe molto senso considerarli esemplari di un conflitto, quello fra sapere medico e sapere giuridico, che si svolge nella seconda metà dell'Ottocento per dotare di significato la categoria di "imputabilità". Possono essere riproposti soltanto nel loro svolgersi e nel loro essere luogo di espressioni, di comunicazioni e messaggi dotati appunto di ambiguità. Patrizia Guarnieri, che ha raccolto con certosina applicazione tutti i materiali archivistici, giornalistici, medici, documentari del caso Grandi, non ha poi scelto n‚ la via accademica della riproposizione rarefatta, erudita o peggio falsamente funzionale alla ricostruzione di un segmento di storia dell'ideologia o delle discipline penali; n‚ la via dell"'interpretazione", esercizio pessimo e tuttavia frequente, attraverso cui si gabella come "oggetto di culto" e di alambicchi fraseologici una situazione in realtà certamente unica, ma equiparabile a troppe altre e determinata da troppi elementi più generali e meno drammatici di quanto non appaia attraverso la tecnica del "caso esemplare". L'autrice, risolti i risvolti accademici attraverso le puntuali e tradizionalmente accademiche e ovviamente ricche e utili note, si è tuffata nel racconto del caso, con scelta totalmente narrativa e mimetica.
In effetti il libro è felicemente scritto con sfumature vernacolari, piacevolissime ed ignote agli storici; è scritto dal punto di vista di un lettore affabulatorio dei documenti, che li segue passo passo mantenendo una distanza minima, sufficiente per il solo interrogarsi su ciò che legge, non su ciò che interpreta. Si veda ad esempio: "Quel nano dell'Incisa invece, a quanto se ne sentiva dire, sembrava un caso diverso, pretendeva rispetto. Si offendeva; lui a farsi sbeffeggiare non ci stava, anche se addosso era tanto disgraziato da sembrare ridicolo. Era prepotente. Lavorava e voleva studiare, voleva progredire. Ne sapeva più di tanti suoi compaesani che non potevano neanche leggere e scrivere. E tuttavia sragionava. Forse faceva finta? A non volere che i ragazzi di strada lo schernissero, aveva ragione; gliene facevano di tutti i colori. Anche quelle donne, però, avrebbero potuto starci più dietro ai loro figlioli. Bisognava compatirlo. Ma reagire così! Pensava di farla franca. Sicuro. Cosa avevano detto gli esperti? I professori. Quali? Quelli dell'accusa o gli altri della difesa?Certo che era difficile giudicare. Per fortuna c'erano, ben messe in ordine, le domande del presidente. Loro giurati dovevano soltanto dire si o no". (p. 159). Si legge ordinariamente un testo così mimetico, fra i prodotti dei giovani storici? Esistono usualmente simili prove di coraggio narrativo? e si tenga presente che l'autrice attraverso questa tecnica è anche in grado di riproporre i temi della storia psichiatrica, dei dibattiti peritali, delle implicazioni giuridiche su cui in altre sedi aveva fornito significativi contributi, e che qui accompagnano la narrazione senza mai spegnerla o dirottarla.
Sono questioni su cui negli ultimi dieci anni si è lavorato da parte di diversi studiosi, e non vi è più molto da dire: Patrizia Guarnieri lo sa, e sceglie di spiazzarci. Narrando come narra ottiene infatti, con rara efficacia, di mostrarci insieme l'interazione fra i ruoli sociali e i personaggi e la singolarità, l'individualità e specificità dell'impresa peritale. Poiché i documenti preparatori, e i verbali del processo, ci mostrano le dinamiche linguistiche e dei ruoli fra i componenti della scena sociale e giudiziaria, seguita nei minimi (e utili e recuperabili solo attraverso la scelta narrativa compiuta) particolari. Una scena ricca ed arricchita, di popolo e di funzionari, di periti e giornalisti, nella migliore tradizione delle microstorie - e in quella collana einaudiana appare - mentre i materiali concettuali della psichiatria antropologica di Morselli, e quelli più tradizionalmente nosografici dei suoi maestri ci vengono mostrati nel loro applicarsi direttamente al caso, lontani dalla schematica manualistica.
Se il libro di Patrizia Guarnieri mostra forse l'unica strada possibile per recuperare lo studio di questi casi, la verifica ci viene dalla riedizione dell'autobiografia dell'uxoricida Alberto Olivo. Utile che un editore riproponga materiali all'apparenza obsoleti e conosciuti ormai soltanto dagli specialisti: ma dipende dal momento in cui l'operazione editoriale viene compiuta. Dieci anni fa un "caso Olivo" avrebbe trainato una tradizionale polemica sulla storia della psichiatria, ancora determinata dall'opposizione foucaultiana fra "sapere" e "potere". Oggi la postfazione di Ermanno Cavazzoni salta a pié pari ogni questione relativa, proponendoci soltanto la lettura di questo "romanzo matrimoniale" come testo letterario che narra di "due esseri incatenati che sono gli sposi, che dormono in un letto che si chiama matrimoniale, si cibano di quella cosa che si chiama la spesa, e vivono dentro gran caseggiati in una loro cubatura particolare che sarebbe l'appartamento" postfazione, p. 138). Un romanzo scritto fra il primo e il secondo processo, abilmente teso a mostrare come la moglie si sia "fatta uccidere", e tenuto insieme da un tema letterario continuamente variato: quello del sangue; epistassi e mestruazioni, fiotti dalle ferite naturalmente e altrettanto naturalmente lo scorrere di altri liquidi (il vino per esempio) costituiscono i materiali narrativi di un racconto poi segnato dalla ritenzione di un avaro marito, e dall'ininterrotto flusso di improperi della moglie: occasione anche di dialoghi giocati su registri così vistosamente opposti da risultare godibili.
E si chiede alla fine Cavazzoni, interrogando il testo e noi lettori: "Che cosa si può dire in conclusione? Un uomo uccide la moglie: è reo confesso ma immagina che sia lei l'omicida. Una giuria lo assolve pur ritenendo lui l'assassino; e una seconda giuria lo assolve di nuovo per non contraddire la prima. Lo psichiatra che invece lo ritiene innocente, lo vuole in carcere a vita. Che cos'è tutto questo?" (p. 153) Forse anche la dimostrazione che il delitto, una volta che risulti privato di ogni componente di dubbio, di indagine, di mistero, resta espressione dell'ambiguità irrisolvibile, inaffrontabile dalle logiche giuridiche e mediche. Da leggere, dunque, come per generazioni e culture si è fatto, in termini di sola epifania. O altro, a scelta.

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