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Dettagli

1990
3 aprile 1990
136 p.
9788833905280

Voce della critica


recensione di Chiesa, A., L'Indice 1990, n. 8

I saggi sono in buona parte apparsi su "Tuttolibri", in parte su "L'Espresso" e in parte sono i testi di lezioni e discorsi tenuti in varie parti d'Italia negli ultimi due anni. I temi sono essenzialmente due, l'industria editoriale e gli intellettuali. Su entrambi il discorrere di Furio Colombo scopre prospettive inusuali: il suo è un esempio di pensiero positivo che si svolge tutto all'interno della vicenda dell'editoria europea e americana, con l'attenzione più sorvegliata alle regole della buona gestione aziendale, alle reciproche compatibilità e ai condizionamenti tra industria e cultura. Non ci si lasci fuorviare dal titolo: la parola destino, per di più ripetuta, sembrerebbe indicare un corso di eventi predeterminati da forze ben più poderose e oggettive di quelle dell'autore o dei lettori. Non rimarrebbe altro compito che quello di identificare i segni e i tempi delle trasformazioni in atto nell'industria editoriale, per poi trarre dolenti conclusioni.
Davvero antico è il tema della commercializzazione della letteratura. Nel 1905 Henry Holt, il decano dell'editoria americana, raccontava sull"'Atlantic Monthly" un aneddoto su Appleton, che prima di morire lasciò l'azienda editoriale nelle mani del figlio, con qualche apprensione che gli nasceva dall'aver notato in lui sintomi di gusto letterario. Nel maggio del 1989, in un rapporto sull'editoria americana al salone del libro di Torino, Andrè Schiffrin, il prestigioso ex direttore della Pantheon Books, ricordava che in America la stragrande maggioranza dei libri scadono: non è scritta sulla copertina, ma la data sta a metà tra la scadenza del latte e quella dello yogurt. Dopo quel giorno i libri vengono ritirati e scompaiono. Una citazione italiana e stranamente non tanto vicina? Eccola, tratta da un articolo del 24 settembre 1971 di Claudio Marabini (in "Qualcosa resta", Rusconi, Milano 1975, p. 111): "Quanto dura la vita di un libro oggi? I tecnici della diffusione del libro e gli specialisti dei consumi rispondono: circa tre mesi".
Il succo della posizione di Colombo è questo: state attenti editori, autori, lettori, librai! Attenti al "non-libro", all'editoria gonfiata con gli estrogeni della promotion e della mediazione di immagine. Il vicolo è cieco e quel tipo di editoria scomparirà, travolto dall'uso universale dell''home computer'. Ma attenti anche, aggiunge Colombo, ai grandi best-seller, agli editor che diventano uomini e donne di finanza. C'è, secondo l'autore, una polarità femminile nel lavoro dell'editor e consiste nel seguire con pazienza le opere prime, gli scrittori più innovativi, nel dedicare cure alla ricerca e alle zone meno frequentate e più promettenti della cultura contemporanea. C'è un modo maschile di fare il libro che punta tutto sul best-seller e sulle campagne promozionali aggressive: in questa forma pur del tutto legittima di editoria si annida un tarlo distruttivo. L'organizzazione dell'azienda deve legarsi alla protezione del prodotto e se uno dei due termini viene soffocato, sarà distrutto anche l'altro.
La difesa dell'integrità del prodotto libro, cioè "il valore aggiunto che allarga un mondo, aggiunge informazione, porta notizie di vita interiore o del mondo reale, e fa differenza nella vita dell'utente lettore", si svolge lungo percorsi che non inclinano alla nostalgia ("non c'erano libri nell'Italia povera... i libri non erano un bene di scambio, ce n'erano pochi come era poca la sicurezza, o il conforto"). Colombo parla del modello americano, ma avverte che si tratta di una frontiera avanzata, di percorsi ed errori facilissimi da imitare (in questo senso, non è fuori luogo parlare di destino). Dunque il centro delle preoccupazioni di Colombo è la difesa merceologica del prodotto libro e il pericolo della separazione dell'impresa dal mondo della cultura. Quasi tutti gli scritti di Colombo, e questo non fa eccezione, collegano fatti apparentemente distanti, suggeriscono analogie e rivelano un disegno, anticipano la consapevolezza del polso del mondo o, nei casi più semplici, di atteggiamenti e mode. Una conferma viene dal "New York Review of Books" del 1| marzo 1990: nell'articolo "The Decline and Rise of Publishing" (che in copertina viene indicato come "The Perils of Publishing") Jason Epstein svolge argomenti molto vicini a quelli di Colombo, arricchendoli con un'analisi del sistema distributivo americano: il mercato dei best-seller ha continuato a espandersi con la crescita delle catene di librerie. Oggi c'è un arresto e per il 1989 si fa un gran parlare fra gli editori e sulla stampa specializzata di perdite eccezionalmente alte. Persino i best-seller sono diventati un rischio. Un esempio: per "Whirlwind", il romanzo di James Clavell sull'Iran, l'editore pagò un anticipo di 5 milioni di dollari e il libro fu nella lista dei best-seller del "New York Times" per ventidue settimane; si dice che nonostante le vendite eccellenti l'editore abbia perso su questo solo libro più di un milione di dollari. Nessuna delle case più grandi è riuscita a evitare infortuni di questo genere: la spiegazione sembra stare in una malformazione strutturale, in una perversione del mercato al dettaglio il cui effetto è stato quello di attribuire a un'industria di tipo essenzialmente artigianale l'apparenza fuorviante della produzione di massa, capace di generare profitti sempre maggiori con l'applicazione razionale delle tecniche aziendali più collaudate.
Con la fine dell'espansione delle vendite nelle catene di librerie, l'industria è rimasta con le sue malformazioni di sempre e cioè con un mercato maturo concentrato in modo troppo limitato su pochissimi titoli e con una pericolosa accumulazione di anticipi tremendi agli autori.
Le novità positive della situazione americana vengono invece dall'apertura di alcune librerie di qualità, con decine di migliaia di titoli di letteratura, filosofia, scienza, ecc. Sembra ovvio, dice Epstein, il collegamento con la rapida diffusione di negozi di alimentari di qualità, dove si possono trovare una dozzina di tipi di salmone affumicato e uno stuolo di marche di olio d'oliva e di formaggi. Lo stesso modello di consumo vale per le videocassette, per i più di trecento tipi di auto, ecc. In altre parole, non solo negli Stati Uniti c'è una domanda storicamente senza precedenti di maggiore autonomia e di scelte più ampie. Singolarmente vicine le tesi di Colombo (v. "L'inverno editoriale", pp. 25-34): "l'industria va male, cadranno teste, si taglieranno drasticamente i bilanci. Il pubblico dei lettori è in aumento... quali libri si salveranno? È una domanda che troverà la sua risposta se chi scrive, chi pubblica, chi legge, torneranno a cercare di incontrarsi, a lavorare insieme senza drogare la corsa". È tanto più significativa la doppia testimonianza, perché Epstein è vicepresidente di Random House e Colombo presidente del gruppo Fabbri. La loro è una difesa ragionevole di una sana amministrazione aziendale: l'editoria è trascinata verso il baratro proprio perché succube della corsa al successo e al best-seller e della tendenza a puntare tutto su pochi libri. La ricetta non sta nel ritorno a un umanesimo inefficiente e con i bilanci in disordine; tra un laureato in business administration ad Harvard e un editor curioso, ma economicamente inaffidabile, la preferenza sembra andare a una business administration ben temperata. Perché il profitto rimanga, occorre che non si punti tutto sul profitto. Si intravede una convergenza (o è una speranza?) tra economia e cultura, tra profitto e ricerca, come se le migliori ragioni del primo termine rafforzassero il secondo e viceversa. Basta seguire regole ragionevoli: proprio un'industria anomala come l'editoria (un gioco alla roulette, dicono in molti) consente rassicurazioni, esperimenti, strategiche cerniere tra studiosi di fama e finanzieri di molto riguardo. È ancora, come si diceva un tempo, un'occupazione per gentiluomini, ma i gentiluomini oggi considerano inadeguato e poco elegante perdere quattrini, pochi o molti.
Il libro di Colombo riesce a essere il più prezioso documento di questi giorni e insieme la più impietosa delle rappresentazioni; quando parla dell'antiintellettualismo nelle società industriali democratiche e del libro "Gli intellettuali" di Paul Johnson, oltre all'irritazione per un'aggressione vile ("che sfogo inutile... Avrebbe potuto presentare a una specie estinta l'onore delle armi. E invece ha voluto far ridere alcuni danzando sulla tomba") si percepisce la consapevolezza che i critici, i centri universitari "non scalfiscono la pietra del tempo, non sembrano capaci di intaccare un gusto, di segnare una inclinazione, di prefigurare una moda".
I ritratti di scrittori, da Brodskij a Rushdie a Philip Roth ("la faccia intenta e sicura... un insieme abbastanza armonioso tra vivere, apparire e pensare") a Primo Levi a Enrico Filippini, sono ricchissimi di osservazioni acute e scorci non convenzionali: sono conversazione nel senso più alto. Della conversazione conservano il movimento e la leggerezza.
Vorrei ricordare ancora un episodio annotato da Colombo in "Vedere, non capire" (pp. 74-76). È un incidente e riguarda David Leavitt invitato alla Columbia University dove si presentava l'edizione americana di "Nuovi Argomenti". Qualcuno gli chiede notizie sugli autori giovani in Italia, sulla vita italiana. Leavitt non risponde. Alain Elkann insiste un po' stupito e irritato dal suo silenzio. Alla fine Leavitt sbotta: "Non so niente. Questa è una domanda sulla mia vita privata. Io in Italia conosco solo ristoranti". Colombo è molto duro nel giudizio su Leavitt, come gli capita di rado. Io sarei meno severo: in fondo, nel silenzio di Leavitt si può cogliere qualche fastidio per la chiacchiera non documentata, la centralità dei ristoranti nella vita culturale italiana, l'imbarazzo davanti alle genericità compunte. Ma si capisce bene che per Colombo la conversazione deve continuare, specialmente quella tra l'Italia e gli Stati Uniti che lui stesso ha saputo organizzare con passione meticolosa e inesauribile freschezza.

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Furio Colombo

Furio Colombo, giornalista e scrittore italiano, è stato docente alla Columbia University e corrispondente da New York di varie testate, ha scritto per molti giornali italiani e americani e ha realizzato numerosi documentari e servizi per la Rai; è stato direttore de «l’Unità» (2001-05); è deputato dal 1996. Autore di acute analisi delle trasformazioni della società statunitense (tra cui L’America di Kennedy, 1964; I prossimi americani, 1976; America e libertà, 2005) e degli sviluppi del mondo contemporaneo (Il destino del libro e altri destini, 1990; La città profonda, 1992; Confucio e il computer. Memoria accidentale del futuro, 1995), ha dedicato particolare attenzione anche alla situazione politica italiana (Il libro...

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