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Il collegio di sociologia - Denis Hollier - copertina
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554 p. paperback 9788833905938 Ottimo (Fine) .

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Il collegio di sociologia

Dettagli

1991
XXXVIII-558 p.
9788833905938

Voce della critica


recensione di Filoramo, G., L'Indice 1991, n. 6

L'interesse per il sacro, con il conseguente tentativo di fondare una sociologia sacra che si ponesse come compito "lo studio dell'esistenza sociale in tutte quelle sue manifestazioni in cui si delinea la presenza attiva del sacro", domina l'attività del Collegio di Sociologia: sacra, infatti, appare la sua peculiare fondazione e sotto il segno del sacro sacrificale si consumerà la sua estinzione; animati da sacri furori si muovono sulla scena i suoi protagonisti principali, Bataille e Caillois; potenza che respinge e attira, infine, il sacro costituisce ancor oggi in questa sua equivocità - come sottolinea Hollier nella bella introduzione - la cifra stessa in cui è inscritta ed entro cui si consuma la breve ma intensa vicenda del Collegio e del suoi protagonisti.
Dei molti percorsi che i testi raccolti da Hollier offrono e che invitano a leggere il libro ora come documento letterario di uno degli esiti in cui incorse l'avventura surrealista ora come documento culturale significativo del declino della III Repubblica e degli sbocchi contrastanti che vi conobbe un certo 'engagement' intellettuale, forse quello che meglio ne coglie la specificità è legato a una traiettoria sociologica francese di lungo periodo, che ha nella scuola durkheimiana il suo apogeo e nel Collegio la sua "camera ardente". Com'è noto, infatti, l'aspetto fondamentale di questa tradizione sociologica risiede nella centralità assegnata alla religione come fattore di integrazione e coesione sociali, centralità che si spingerà, in Durkheim e nei suoi epigoni, fino ad identificare religione e società; forse è meno noto che abbiamo a che fare con una variante di una concezione che affonda le sue radici nel tradizionalismo cattolico.
Con le sue languide nostalgie per un corpo sociale ordinato e scattante, gerarchicamente disposto e, nel contempo, armoniosamente coeso metabolizzato da quegli umori controrivoluzionari che dovevano renderlo pronto, secondo la teoria dell'autorità di un de Bonald, a seguire il proprio capo 'à bout de soufle' o, secondo il "Génie du Christianisme" di Chateaubriand, a rivestirsi dei panni seducenti del mistero, il "cattolicesimo senza cristianesimo", che sta alla base della tradizione francese, costituisce il perfetto contraltare del "protestantesimo senza cristianesimo" che sta invece alla base della tradizione sociologica, "pietista" e individualista, destinata a sfociare nella sociologia della religione di Max Weber. Una tradizione, dunque, olistica, che assegna il primato al tutto sulle parti, alla società sull'individuo; ne consegue, secondo questa prospettiva, che si crede non in quanto si sa, ma in quanto si agisce. Come una macchina ben oliata e dal motore comunque sempre acceso, la religione funziona indipendentemente dall'individuo che la usa. Il suo motore, infatti, si alimenta con un carburante non sottomesso alle alee del mercato: il sacro, appunto, inteso come fondamento dell''ordo rerum'. A differenza del carisma weberiano, privilegio di eletti, il sacro è, per questa tradizione, la quintessenza di una società che ciclicamente si rinnova, attingendovi nei momenti in cui, sull'orlo delle sue periodiche crisi, non può non ricorrere a questo "gerovital" collettivo. Non dovremo stupirci, in coincidenza con la crisi profonda che travagliò la cultura francese negli anni 1936-39, di trovare il sacro al centro del dibattito e dell'esperienza stessa del Collegio. La tematica della palingenesi sociale con i suoi inevitabili umori organicistici e i suoi corollari o presupposti nostalgici, presiede alla fondazione stessa di quella peculiare comunità morale che fu il Collegio, una forma di aggregazione sociale, tra l'altro, in cui le tipiche esperienze "collegiali" dei fondatori si coniugavano con l'aspirazione a costituire una società segreta che, con il suo rigore, il suo ascetismo, la sua disciplina e la sua forma paramilitare, fosse in grado di opporsi "alla decomposizione del tessuto sociale e all'atomismo della democrazia".
Scandite da incontri quindicinali che si tenevano nel "retrobottega polveroso" di una libreria del Quartiere Latino, le vicende del Collegio sono tutte racchiuse tra il 1937, anno in cui su "Acéphale" appare la Nota di fondazione, e il 1939. Pochi sono i testi di queste conferenze a noi direttamente pervenuti; merito di Hollier è di aver cercato di ricostruire, attraverso un procedimento di collage e di restituzione che non ha mancato di sollevare qualche perplessità ma che nel complesso convince, il dibattito culturale che vi si svolse e che pare non aver perso nulla della sua vivacità e della sua importanza. Si può dire che questo dibattito inizi là dove si era arrestata l'analisi durkheimiana: di fronte al mistero dell'effervescenza collettiva, mistero che oggi la psicoanalisi permette di accostare in modo diverso, se non di svelare. Organismo che nel suo statuto "pone la questione del potere spirituale", offrendo all'osservatore esterno il volto disincantato di un corso libero di sociologia d'avanguardia, il Collegio si rivela ben presto ai suoi partecipanti una "porta aperta sul caos ove ogni forma si muove, si espande e si dissolve" (Bataille). Su questa 'ecclesiola' soffia ora uno "spirito" singolare, il vento invernale di Caillois, in grado di gettare un ponte nuovo tra individuale e sociale: "così come esiste un'esperienza primigenia, irriducibile dell'io, che costituisce la molla dell'individualismo anarchico, così bisogna rendere palese il fondamento esistenziale inalienabile dello sforzo collettivo". Si errerebbe, d'altro canto, a vedere in tutto ciò unicamente un tentativo di spiegazione sociogenetica in chiave psicoanalitica delle pulsioni che presiedono alla "nascita eterna" di quella individualità che è la società. Quel che accomuna i vari interventi è un tentativo di risacralizzazione del mondo, un reincantamento che persegue lo scopo di riunificare ciò che la psicoanalisi sembrava avere irrevocabilmente diviso.
Alcuni dei protagonisti, ripensando a quegli anni di fuoco, prenderanno le distanze dall'"estetismo fascisteggiante" (Klossowski) e dalle "situazioni false" in cui si erano venuti a trovare ("La casa bruciava - scriverà Caillois - e noi riordinavamo l'armadio"); tuttavia colpisce oggi l'importanza del tema di fondo che domina il dibattito e che Denis de Rougemont fissa lapidariamente: "le più potenti realtà dell'epoca sono affettive e religiose". È questa convinzione che favorisce inizialmente l'osmosi culturale tra Bataille e Caillois, con il loro interesse a rivisitare i grandi temi della storia delle religioni alla ricerca di un supplemento d'anima per una società che appariva loro imputridita. È sempre questa convinzione, mutuata dall'insegnamento di Mauss ma su cui grava anche l'ombra degli studi di Dumézil, che induce a rileggere i drammatici eventi coevi alla luce di quella dinamica e di quella logica del sacro che Caillois aveva colto e fissato ne "L'homme et le sacré" (1938).
Kojève ha rimproverato a Bataille di aver giocato all'apprendista stregone: accusa, col senno di poi, profetica, purché si tenga conto che, almeno da parte di Bataille, vi era come una volontà consapevole di morte nel momento stesso in cui contribuiva a fondare la nuova comunità morale. Non si tratta tanto di un fatto caratteriale, quanto di un aspetto fondamentale del suo pensiero, in funzione del quale si consumerà anche la separazione da Caillois. Quest'ultimo, infatti, persegue a suo modo un progetto razionalistico di addomesticamento del sacro selvaggio, circuito e catturato attraverso un mimetismo che porta a combattere il nemico con le sue armi. Ma, alla fine, l'ordine trionferà, un ordine "in grado di attirare a se e di integrare il disordine". La totalità androginica del sacro, che il giovane intellettuale persegue, è una 'coniunctio oppositorum' asimmetrica, in cui uno dei due termini e cioè l'attivismo "maschile" risulta alla fine preponderante. Diversa la posizione di Bataille, proteso a sondare l'orrore del sacro negativo, ad auscultare il mistero della sua passività, a cogliere il fascino repellente della sua alterità pulsionale, una materia "femminile" comunque irriducibile all''ordo' della ragione. Eppure proprio a partire da questo 'Grund' si genera quella tensione, che permetterebbe il passaggio dal sacro sinistro e negativo al sacro destro e positivo. Se, dunque, per Caillois, il sacro si configura come una sorta di 'réservoir' cui attingere le forze pulsionali che fondano la comunità e al cui interno soltanto anche l'individuo può soddisfare in forme opportune la sua sete di cambiare muta sociale, per Bataille il sacro si rivela un fenomeno nel cui codice genetico è inscritta la violenza della separazione e la tragicità della morte. Non dovremo, di conseguenza, stupirci che egli abbia mirato fin dall'inizio a costituire una comunità negativa, fondata sull'impossibilità stessa della comunità, sull'esperienza cioè di questa impossibilità come unico fondamento possibile per coloro che non hanno n‚ possono avere comunità. Potenza del negativo, di un negativo, però, che aveva appreso da Kojève che il tempo è giunto al capolinea e che la storia non può più essere dialetticamente inverata, di un negativo in cui, come nella potenza di vita che soggiace al sacrificio emblematico del re, "c'è la semplicità del colpo d'accetta".
Immagine "sinistra", che i tragici eventi della guerra avrebbero caricato di orrori imprevisti e imprevedibili; ma immagine che conserva intatta, nella sua ambigua nettezza, quel nesso tra violenza e sacro che pare inscritto nel cuore stesso dell'agire religioso.

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