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Anno edizione: 1991
Anno edizione:
Anno edizione: 2003
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Mi è molto piaciuto questo libro. Una scrittura scarna ed efficace, uno stile essenziale ma fortemente evocativo, forte carica descrittiva. Fatti, emozioni, avvenimenti privati e professionali vengono evocati, rivissuti e consegnati alla memoria di chi li legge. 'Servabo' è il primo libro di una trilogia da non perdere (La signora Kirchgessner e Il nespolo) che racconta una storia privata, intrecciata strettamente con la Storia, dalla fine del ventennio fino ai giorni nostri. Una lettura di grande fascino.
Recensioni
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recensione di Cases, C., L'Indice 1991, n. 6
Nell'imperversare delle autobiografie più o meno di fine secolo ci si poteva aspettare che quella di Pintor sarebbe stata improntata al suo laconismo sardo, per cui fin dalle prime prove di giornalista giunse alla conclusione che "due pagine bastano a esaurire qualsiasi argomento". Qui le pagine non sono proprio due, ma novantadue comprese molte bianche. Se si pensa all'importanza che solitamente si attribuisce alla propria vita, tanto maggiore quanto più si rivela la sua vanità, non si può non essere grati a Pintor della sua discrezione. Il libretto si legge presto e bene. Certo, un'epigrafe di Voltaire avverte che "i libri più utili sono quelli in cui i lettori fanno essi stessi metà del lavoro", cioè che offrono solo un canovaccio da integrare con la riflessione; per di più il nichilismo di Pintor, che già aveva chiamato "Parole al vento" la raccolta dei suoi articoli degli anni ottanta (apparsa peraltro presso un editore che si intitola Kaos e non Chaos, come qualcuno si aspetterebbe), lo induce a far sì che nell'attuale "intreccio di ferocia e di futilità" anche "nomi e luoghi e date" che avevano per lui grande importanza abbia "preferito non indicarli per evitare che gli si sbriciolassero tra le mani come polvere".
Tuttavia nel rifiuto di fornire nomi e luoghi e date c'è qualche cosa di più di una scelta ideologica. A suo tempo Pintor è caduto nelle mani di una "famosa banda di irregolari" fascisti (deve essere la banda Carità, ma nessuno deve saperlo) e ha passato un brutto quarto d'ora, anche se non è stato sottoposto alla "tortura scientifica" in cui eccellevano i nazisti. Ebbene, l'ostinazione di Pintor ha a che vedere con il "mi parli no" di una celebre canzone. Un torturatore invisibile gli vuole estorcere nomi e luoghi, e lui tace o dà risposte che non servono. Dice che da giovani "si è buoni incassatori e simulatori" e anche in questo è rimasto giovane. Il torturatore gli chiede dove è stato e lui risponde: "nell'oriente leggendario dove gli uomini inferiori, soldati e operai, avevano vinto la loro rivoluzione per la prima volta nei millenni". Questo non lo toglierà dalle liste nere postume dell'Fbi ma intanto lui non ha parlato se non ricorrendo a circonlocuzioni che sono al contempo ironiche e poetiche. Tornano alla mente le pagine leopardiane sulla poeticità dell'indefinito e allora ci si chiede se tutto questo sfoggio di "mi parli no" non serva soltanto a creare un'atmosfera poetica. La Sardegna non si chiama mai così ma "l'isola felice" o al massimo "la sperduta isola dei sardi", tanto più sperduta "quando andare e venire dal continente era un'impresa". Intorno alle parole evasive di Pintor c'è sempre come un braccio di mare. È questo che fa passare l'irritazione quando il lettore voltairiano non è affatto in grado di rispondere ai quesiti posti dal testo. "Una mia sorella pregò per me con un futuro papa". Quale sarà questo papa? Ma se lo dicesse andrebbe persa l'ironia sul miscredente forse salvato dalle preghiere di un papa che non può sapere che diventerà tale. Nonché l'ironia, presente dappertutto, sul rivoluzionario di buona famiglia.
In questa vasta categoria Pintor occupa una posizione peculiare. A suo agio nella società di provenienza, anzi grato al destino che l'ha fatto crescere "in un mondo familiare amichevole e protettivo che non lasciava temere cattive sorprese" e in una città che offriva al bambino una grande libertà, Pintor non trae certo la sua amarezza da un'antica e inappagata rivolta. Del resto il suo patriziato ha ancora molte connotazioni dell'Italia di una volta in cui anche i ricchi non scialavano ed erano costretti dall'arretratezza tecnologica a fare il bagno "in una vasca di zinco con pentole d'acqua bollente e l'aria stemperata da una fiamma". E anche il populismo di Pintor deve avere salde radici, come quello di Lussu, nella realtà isolana. La scoperta è casomai quella della classe operaia, al centro dell'utopia di Pintor, della sua fondamentale convinzione, non libresca ma dovuta all'incontro con un vecchio muratore, "che gli operai avrebbero liberato il mondo liberando se stessi". Ma già allora qualche cosa lo avverte che c'è da dubitarne, che il futuro non può essere l'inveramento delle speranze giovanili dell'anteguerra. "C'era troppa sproporzione, era morta troppa gente, quella normalità somigliava a una diserzione". Non si potrebbe meglio definire lo stato d'animo che lasciava l'esperienza della seconda guerra mondiale e che stranamente non aveva lasciato quella della prima, forse perché aveva meno coinvolto la popolazione civile. Tripudi antifascisti e frenesie di partito non bastavano a celare questa sensazione che rese poi plausibile ogni sconfitta e indispensabile ogni rottura. C'è un rapporto diretto tra questa malinconia della vittoria, per cui "i vincitori assomigliavano stranamente ai vinti" e la relegazione di Pintor in Sardegna e il suo ruolo nella fondazione del "manifesto".
Pintor è il giornalista che più lascia intravedere una tempra di scrittore, eppure confrontando questo volumetto con i suoi articoli ci si accorge che là è un grande giornalista, ma un giornalista, le cui virtù di energia epigrammatica restano all'interno del genere. Qui invece abbiamo a che fare con lo scrittore e soltanto con lui, perché l'oggetto non sono le nequizie della vita pubblica bensì il "parallelismo tra le derive della vita pubblica e collettiva e quelle della vita privata e individuale". Se in tal modo Pintor finisce per caricarsi, novello agnus dei, di tutti i peccati del mondo (ma è quello che dovremmo fare tutti, e allora sì...), tuttavia tra il mondo e Pintor è lui che ci fa la miglior figura. Nulla mi disgusta di più dei trattati di morale che insegnano a stare al mondo e il cui succo è (detto in modo naturalmente più ipocrita): levati di costì che ci vo' star io. Trattati annichiliti da questa bellissima frase di Pintor che enuncia la vera morale: "Non c'è in un'intera vita cosa più importante da fare che chinarsi perché un altro, cingendoti il collo, possa rialzarsi". Per amareggiato e andato alla deriva che sia Pintor, e anche se difficilmente il suo collo basterà a rialzare in piedi l'umanità, meglio avere accanto a sé questo isolano solitario e scontroso che qualsiasi altro allegro contemporaneo.
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