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Metodo e prassi nella storia dell'arte - Otto Pächt - copertina
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Descrizione


La questione non è quella di porsi il problema del metodo come fine a se stesso, né di delineare una ricerca sui fondamenti, ma di approfondire alcuni aspetti pratici relativi al mestiere degli storici dell'arte. E' quindi necessario individuare gli strumenti e i metodi più adeguati per affinare i propri organi di ricezione, se è vero che questi strumenti e metodi non si possono dedurre in astratto ma solo sul terreno concreto dell'empiria. Questo terreno non può che essere quello storico, che rispetto ai procedimenti psicologici o sociologici ha il vantaggio di poter verificare le sue affermazioni: il tentativo di vedere la singola opera in prospettiva storica è il tentativo di liberarla dal suo isolamento, perciò all'arbitrio dell'interpretazione soggettiva.
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Dettagli

1994
1 settembre 1994
XVI-152 p., ill.
9788833908687

Voce della critica


recensione di Collareta, M., L'Indice 1995, n.11

Nel 1963 usciva sul "Burlington Magazine", all'interno di una rubrica dedicata ai maggiori storici e critici d'arte, un breve ma densissimo articolo su Alois Riegl. Ne era autore uno studioso ormai più che sessantenne, Otto Pacht, che proprio in quell'anno lasciava l'Inghilterra per rientrare nella nativa Austria, chiamatovi a ricoprire la cattedra di storia dell'arte presso l'Università di Vienna. Il richiamo al più illustre e discusso esponente della "Wiener Kunstgeschichte" aveva evidentemente un significato profondo per Pacht in un momento cruciale della sua vita scientifica. Si trattava di lasciare al paese che lo aveva ospitato un'eredità metodologica più esplicita di quella mediata da tanti pur fondamentali studi specifici e, insieme di riannodare i rapporti col paese d'origine all'insegna di uno dei grandi nomi della cultura nazionale.
Non a caso Pacht, dopo aver partecipato nel 1961 al Convegno internazionale di storia dell'arte di New York con un memorabile intervento in inglese sulle "radici precarolinge della prima arte romanica", partecipava nel 1964 all'analogo Convegno di Bonn con un intervento altrettanto memorabile, in tedesco, su "originalità artistica e innovazione iconografica". I problemi di metodo erano presenti da sempre nella sua produzione di studioso "theoretically minded" (l'espressione è dello stesso Pacht), ma solo ora, dopo il rientro a Vienna, essi potevano acquisire una centralità difficilmente immaginabile a Londra o a Oxford. Nel 1970-71 Pacht tenne un corso di "metodologia per la prassi storico-artistica" che fu pubblicato sette anni più tardi in una raccolta di saggi dell'autore edita da Prestel. È questo corso, isolato, che ci viene ora presentato nel bel volumetto di Bollati Boringhieri.
Il testo è di grandissimo interesse. Fondato su uno spettro assai ampio di esempi, articolato in maniera libera e discorsiva, esso guida il lettore in un itinerario altamente personale attraverso alcuni dei più scottanti problemi che investono lo studio storico delle arti visive. La ben nota capacità di Pacht di porre le domande giuste alle singole opere d'arte (il pubblico italiano può pensare alla "Miniatura medievale", edita nel 1987 dallo stesso Bollati Boringhieri) fa in modo che le riflessioni di carattere generale scaturiscano come un'intima necessità da un magistrale lavoro di analisi.
Si prenda per tutte la lettura della Cappella Pazzi, unico esempio architettonico in un contesto per il resto esclusivamente rivolto alle arti della figura. Interpretando l'opera di Brunelleschi in termini di "incrocio" o "incastro di forme" (il sostantivo "intreccio" usato dal traduttore Cuniberto, p. 46, non mi sembra rendere bene il 'Verschrankung' dell'edizione originale, p. 224, e può creare confusione con la precedente lettura dello spazio romanico), Pacht ha buon gioco a collegarla con l'analoga interpretazione del San Carlo alle Quattro Fontane di Borromini, offerta da Sedlmayr nel lontano 1930, e a prospettare così l'esistenza di "una costante tipicamente italiana".
C'è da chiedersi in che modo il discorso verrà recepito da quegli studiosi nostrani che negli ultimi anni si sono dati da fare per negare l'esistenza stessa dell'arte italiana. Sta di fatto che l'individuazione di costanti artistiche nazionali ha costituito uno dei grandi temi di ricerca per la generazione formatasi negli anni in cui Wolfflin scriveva "Italien und das deutsche Formgefuhl" e che nel caso di uno studioso ebreo, nato in Austria, vissuto a lungo in Inghilterra e costantemente interessato all'arte francese, sarebbe ridicolo sventolare lo spettro del nazionalismo o peggio del razzismo.
Il punto permette di entrare direttamente nel cuore del saggio. Ciò che caratterizza la metodologia di Pacht è infatti un rigoroso storicismo alla Dilthey, nel quale i fattori sovraindividuali giocano un ruolo determinante, cui non sfuggono nemmeno le personalità artistiche più alte e originali. Non è un caso che l'unico studioso italiano a venir citato con una certa frequenza sia Croce. Sottolineando l'antinomia tra arte e storia teorizzata dal filosofo liberale, Pacht parte all'attacco dell'antistoricismo di Gombrich, legato a Croce attraverso Schlosser, e recupera tutta una serie di pensatori (Wolfflin, Riegl, Pinder, Jantzen, Sedlmayr prima maniera...) contro cui s'è venuta via via abbattendo la critica demolitrice del suo più giovane concittadino e collega. Se l'operazione, non diversamente da quella condotta parallelamente contro Panofsky, mostra qua e là il segno evidente della forzatura, non v'è dubbio che alcuni dei risultati con essa ottenuti sono notevoli e hanno quantomeno il merito di riproporre interrogativi e problemi tutt'altro che risolti.
L'idea di estrapolare dall'originario volume miscellaneo tedesco il solo testo che qui si presenta è legittima e dovuta, probabilmente, all'encomiabile intento di contenere i costi. Privato dei nessi che lo legavano ad altri titoli della stessa raccolta, il saggio di Pacht risulta però più ostico e difficile a intendersi. A ciò si aggiunga, per il lettore italiano, il continuo rimando a un dibattito largamente ignoto, che investe gran parte delle riflessioni sulla storia condotte nei paesi di lingua tedesca da Burckhardt in avanti. La cosa trova solo in parte un rimedio nella prefazione di Otto Demus, il secondo dei "dioscuri" viennesi, che ha la forma strettamente monografica e tutta fatti del tipico necrologio accademico. Più efficace sarebbe stata un'introduzione che ampiamente desse conto di alcuni saggi chiave di Pacht, a partire dai geniali "Gestaltungsprinzipien der westlichen Malerei des 15. Jahrhunderts" del 1933, e del loro nesso con la più giovane e combattiva storiografia artistica viennese degli anni venti e trenta. Si dice questo soprattutto pensando alla destinazione eminentemente universitaria del volumetto edito da Bollati Boringhieri. I nostri studenti hanno bisogno di letture che li sottraggano alle opposte tentazioni dell'accumulo di dati e dell'ipse dixit, ma non sempre sono in grado di affrontare da soli dei testi che risultano difficili anche agli addetti ai lavori.

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